di Daniela Musini
Una delle voci più sfolgoranti della poesia americana e mondiale, Emily Dickinson (ma qualcuno sostiene che, insieme a Saffo, sia stata la più grande poetessa di tutti i tempi), nacque il 10 dicembre 1830 in una piccola cittadina del New England e lì morì cinquantasei anni dopo.
Il padre era uno stimato avvocato e le impartì un’educazione rigida e puritana, che mal si coniugava con il bisogno di indipendenza intellettuale, libera da vincoli e imposizioni, che Emily mostrerà fin da piccola.
Visse un’esistenza priva degli stordimenti erotici e dei sussulti carnali della passione (ma quanto ambigua e oscura attrazione irradiano le liriche dedicate alla cognata Susan), eppure vibranti e spasmodici sono i suoi versi d’amore.
Per oltre un secolo si è pensato a lei come ad una quieta beghina che andava in sollucchero per i passerotti e che sfornava focaccine dolci per i monelli di strada, ma non è così.
La sua poesia, specchio fedele del suo schizofrenico animo, sa coniugare, con inquietante nitore, api, uccellini e mani mutilate, epifanie dolcissime ed immagini raccapriccianti: è una poesia palpitante e torva, cristallina e densa che a tratti può esercitare, secondo me, la stessa strana, inquietante fascinazione del dipinto “Gotico Americano” di Grant Wood (nella foto).
In vita non pubblicò mai nulla, ma alla sua morte la sorella minore Lavinia trovò, ben celati in un cassetto, 1775 poesie raccolte in fascicoletti: I Bollettini dell’immortalità non furono apprezzati dai critici contemporanei (siamo nel 1886)…troppo ermetici…troppo contorti…troppo particolari.
Solo intorno alla metà del Novecento ci si accorse della statura e della forza impressionante che ciascuna parola, ciascun verso delle liriche della Dickinson riverberano.
Lei, la poetessa “dell’Incubo, del Doppio e della Morte”, come acutamente osserva Silvio Raffo, condusse un’esistenza senza trasalimenti e brividi sfacciati e fu placida al limite della nevrosi: Emily visse in un volontario isolamento chiusa nella sua stanza e per vent’anni non varcherà mai i confini del suo giardino. Non si ucciderà, ma rinuncerà a vivere. Il che è poi la stessa cosa.
Restai insaziata tutti i miei anni.
Arrivato il pomeriggio, tremante
avvicinai il tavolo per mangiare
e assaggiai un vino strano,
quello che avevo visto sulle tavole
quando affamata – tornando a casa –
guardavo attraverso i vetri la ricchezza
che non speravo di possedere mai.
Non conobbi l’abbondanza del pane –
era diversa la briciola
che avevo divisa con gli uccelli
nella sala da pranzo della natura.
Il troppo mi urta – è così insolito.
Mi sentivo a disagio, spaesata –
come una bacca ai fratta montana
trapiantata sulla strada.
E non avevo fame. Allora capii
che la fame è un istinto
di chi guarda le vetrine dal di fuori.
L’entrare, la disperde.
Emily Dickinson
Fammi un quadro del sole –
posso appenderlo in camera mia
e fingere di scaldarmi
mentre gli altri lo chiamano “Giorno!”.
Disegna per me un pettirosso – su un ramo –
così sognerò di sentirlo cantare
e quando nei frutteti cesserà il canto –
ch’io deponga l’illusione.
Dimmi se è vero che fa caldo a mezzogiorno –
se sono i ranuncoli che “volano”
o le farfalle che “fioriscono”.
E poi, sfuggi il gelo sopra i prati
e la ruggine sugli alberi.
Dammi l’illusione che questi due – ruggine e gelo –
non debbano arrivare mai!
Emily Dickinson