Rubrica coriandoli. Billie Holiday: quella voce da brivido caldo, quella vita dannata

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Nacque a Philadelphia il 7 Aprile 1915, lo stesso anno di Edith Piaf e come lei fu leggenda, brace e disperazione.
Nacque da due genitori ragazzini: la madre Sarah aveva poco più che 13 anni, il padre Clarence era un sedicenne strampalato che girava di città in città suonando il banjo. Fu battezzata con il nome di Eleanore e prese il cognome di sua mamma, Fagan, ché il padre se la squagliò appena lei venne alla luce.
Crebbe a Baltimora in casa della nonna (la madre si era trasferita a New York a fare le pulizie), l’unica che le diede amore e dolcezza.
Dormivano insieme, con la piccola Eleanore rannicchiata fra le sue braccia.
Una mattina si svegliò e sua nonna ancora la serrava a sé: era morta durante la notte e il rigor mortis aveva trasformato quell’abbraccio in una morsa. La liberarono i vicini sentendola urlare terrorizzata.

I vicini, già. Ce n’era uno: aveva 40 anni. Lei 10 ed era una bimba sola. Lui si trasformò in orco e lei in una vittima dagli occhi disperati.
La madre tornò e se la riprese, quella ragazzina dallo sguardo smarrito e la pelle di luna; la condusse con sé a New York dove arrancava sfiancandosi in mille lavoretti.
Eleanore a 12 anni finì in un bordello clandestino di Harlem ufficialmente a fare le pulizie; la maîtresse amava il jazz e il grammofono del salottino rosso gracchiava le canzoni di Bessie Smith e Louis Armstrong, e il blues le entrò nelle vene.
La miseria era tanta. Come la disperazione. Come la voglia di cantare.

Quella bimba divenuta ormai fanciulla si presentò una sera al Log Cabin Club e il proprietario Jerry Preston, che cercava ballerine, le chiese se sapesse ballare.
<<Sì>>, mentì lei.
<<Mostra le gambe e fammi vedere che sai fare>>
Ballò da schifo e il proprietario stava per cacciarla quando lei tutto d’un fiato: <<So cantare…so cantare!>> Il pianista attaccò un vecchio blues e lei cantò con quella sua voce da gatta in amore, quella voce ferita come la sua anima e gli avventori annoiati sugli sgabelli con il bicchiere di gin in mano come in un quadro di Hopper, si voltarono tutti ad ascoltarla.
Con le mance racimolate in tasca uscì correndo e comprò un pollo allo spiedo che lei e sua mamma divorarono tutto, ridendo e piangendo.

Nel locale di Preston per le cantanti e le ballerine era uso aggirarsi tra i tavoli con la gonna sollevata perché i clienti infilassero ridacchiando le banconote tra le giarrettiere o negli slip.
Eleanore si rifiutò, sdegnata, e per tutti divenne la “Lady”, la signora.
Una sera in quel locale capitò il produttore John Hammond: <<Sei in gamba, voglio presentarti a mio cognato>>.
Il cognato era Benny Goodman, clarinettista e direttore d’orchestra; Eleanor incise dei dischi con la sua mitica Big Band, si trasformò in Billie (in omaggio all’attrice del muto Billie Dove), prese il cognome del padre, Holiday, ed entrò nella leggenda.

Cantò accompagnata dai più grandi: Count Basie, Art Shaw, Duke Ellington, Oscar Peterson, Louis Armstrong (con cui girò il film “La città del Jazz”), sempre con la sua voce graffiata in cui si mescolavano pathos, furore e sensualità, sempre con una gardenia bianca tra i capelli (da quando si era bruciata i capelli in camerino e aveva ricoperto le ciocche devastate con dei fiori rubati da un vaso), sempre con quello swing lento, strascicato e così maledettamente sexy.
E se la carriera ormai era decollata, se era amata e venerata (Orson Welles si innamorò di lei) e talmente apprezzata che una sera in un locale di Hollywood, di fronte agli epiteti razzisti di un paio di boriosi bianchi, Bob Hope, Lana Turner e Rita Haywoorth che erano lì ad applaudirla, si alzarono inviperiti e li presero a bottigliate, la sua vita sentimentale e personale fu sempre lastricata di sofferenza e angoscia.

Nel 1941 sposò un farabutto, Jimmy Monroe, spacciatore di droga e truffatore che l’avviò all’oppio e che passava più tempo in galera che con lei.
Divorziò, divenne alcolizzata, si legò al trombettista eroinomane Joe Guy e cominciò a farsi di droga pesante anche lei, poi fu la volta di John Levy, un vero delinquente dal carattere violento che le fece da manager per un po’, appropriandosi di tutti i suoi guadagni.
In seguito sposò Louis McKay, avido e prepotente e quando questi la lasciò dopo averla spremuta e ridotta uno straccio, lei finì all’inferno. Ogni notte un compagno diverso, ogni sera ubriaca fradicia, le vene ripiene di eroina e di tormento, ma quando sul palco attaccava a cantare “Lady sings the blues” o “The man I love the man”, la sua voce ah la sua voce, stropicciata, implorante, ipnotica, impastata con la rena! Non erano solo trasalimenti timbrici, ondeggiamenti ritmici già così cool, era la sua anima a cantare, devastata e arsa d’amore.

Dal 27 Maggio del 1947 al 16 Marzo del ‘48 viene rinchiusa all’Alderson Federal Prisoners Camp in West Virginia con disintossicazione obbligatoria.
Quando esce, la scena musicale jazzistica è tutta per Sarah Vaughan, osannata dalla critica e lei si sente defraudata e messa da parte, ma reagisce e ricomincia a fare concerti.
Nel 1956 scrive l’autobiografia “Lady sings the blues” (che nel 1973 diventerà un film con Diana Ross, pellicola melensa, non veritiera e sovrastimata), ma era rimasta, nonostante il successo e gli applausi, la piccola Eleanore di un tempo, vulnerabile, infelice, inquieta, ribelle, che rideva e piangeva per un nonnulla, che usava un linguaggio da caserma, che non aveva mai saputo cosa fosse la felicità.
Ricomincia a bere, Billie, e a drogarsi in una compulsiva spinta all’autodistruzione.

Dopo la morte dell’unico uomo che le aveva voluto bene, quel Lester Young, magico sassofonista, con cui aveva creato un magnifico sodalizio artistico (ma al cui funerale le fu impedito di cantare), cade in una depressione da cui non si rialzerà più.
Truffata dagli amanti, dai discografici, persino dalla madre cui aveva regalato un ristorante ma che non l’aveva aiutata quando lei aveva bisogno, Billie si rinchiuse in se stessa, sempre più sola, sempre più disperata in uno squallido appartamento ad Harlem. Unica compagnia: bourbon e tutto ciò potesse essere iniettato in vena.
Il 31 Maggio 1959 la trovano a terra in casa priva di conoscenza e viene ricoverata al Metropolitan Hospital di New York con la Narcotici al capezzale pronta ad arrestarla, qualora si fosse ripresa, per possesso di droga in casa (ma se l’era portata persino in ospedale).
Il 15 luglio le impartirono l’estrema unzione e due giorni dopo morì. Erano le 3,10 di notte e lei, “Lady day” come la chiamavano tutti, aveva solo 44 anni.