Appassionata e fragile, volitiva e vulnerabile, Eleonora Duse ebbe una vita costellata di successi ed eccessi, di gioie accecanti ed amarezze struggenti. Collezionò ovazioni e applausi e visse passioni rapinose ed infelici; la più esaltante e struggente fu quella con Gabriele d’Annunzio, il genio multanime che grazie a lei, Musa inarrivabile, raggiunse vette eccelse anche come drammaturgo.
Essenziale, sublime, perfetta: ecco com’era la Duse attrice. Vibrante, inquieta, passionale: ecco com’era Eleonora donna.
Nacque il 3 ottobre 1858 a Vigevano, casualmente, dato che i suoi genitori, attori veneti, erano lì in tournée; debuttò sul palcoscenico a 4 anni e mezzo nei panni di Cosetta ne “I Miserabili” di Victor Hugo e a 21 era già una primadonna indiscussa.
Tutte le sue interpretazioni furono perle di maestria interpretativa nei ruoli più disparati: da La Signora dalle camelie di Dumas, alla frizzante Mirandolina di Goldoni, dall’appassionata Giulietta di Shakespeare alla drammatica Santuzza della Cavalleria Rusticana di Verga, dalle palpitanti creature dannunziane alle inquiete donne dei drammi di Ibsen. Il Teatro per lei fu sempre vertigine dell’anima, ma anche ansia e frenesia.
Sul palcoscenico Eleonora volle esprimere “il respiro dell’anima”, respiro che imprimeva anche agli oggetti, che con lei diventano sorrisi e lacrime. E la sua capacità di giocherellare fazzoletti, anelli, fiori è leggendaria, come leggendarie erano le sue diafane, stupende mani che muoveva disegnando arabeschi in una sorta di partitura spaziale.
La Duse è stata la più grande attrice di tutti i tempi. Non v’è ombra di dubbio: la sua “recitazione” aveva un potere incantatorio che ammagava il pubblico.
Un modo di recitare il suo assolutamente nuovo, quasi sperimentale, e la sua grammatica mimica e gestuale era stupenda, minimalista, ma di straordinaria efficace, lontana dalla recitazione roboante e calcata delle attrici a lei coeve, Sarah Bernhardt in primis: un’interpretazione allusiva e sospesa che indugiava su gesti minimi, nevrotici, come il toccarsi di continuo i capelli e il viso.
La sua stessa postura non era mai composta e regale, ma spesso strascicata e piegata in avanti, ad esprimere dolore o riflessione. Anche il suo spostarsi sulla scena era imprevedibile e irrazionale.
Le creature che interpretò sulla scena finivano tutte per assomigliarle, tutte forti e complesse, sensibilissime e sublimi. Perché così lei era.
Non fu fortunata in Amore, Eleonora. Visse un rapporto instabile con il Poeta (e librettista di Verdi) Arrigo Boito per 12 anni, fino all’incontro fatale con colui che le stravolgerà la vita: Gabriele d’Annunzio.
Si conobbero nel 1894 a Venezia, ma la passione divampò nel settembre 1895 e per 9 anni consumarono un rapporto intenso e straordinario: lei divenne la sua inarrivabile Musa ispiratrice e lui il più discusso drammaturgo del tempo.
Di cinque anni più vecchia di lui, l’amò di un amore totale e devoto e sovvenzionò tutti i suoi elaborati e costosissimi allestimenti teatrali impegnandosi in estenuanti tournée; lui, pur amandola, non le risparmiò sofferenze ed umiliazioni (compreso l’impietoso ritratto che ne fece nel suo romanzo “Il fuoco”, nelle vesti della Foscarina), tradendola con tutte le attrici delle sue compagnie teatrali, con le sue migliori amiche e persino con sua figlia Enrichetta, senza ritegno.
Nel 1903 d’Annunzio scrisse il suo capolavoro teatrale, La figlia di Iorio; Eleonora avrebbe voluto interpretare la protagonista, Mila di Codra, ma la recrudescenza violenta della tubercolosi e la sua non verde età (aveva 45 anni) indussero d’Annunzio a scegliere un’altra attrice, Irma Gramatica.
Ma si scelse anche un’altra amante: la stupenda, altissima (1,86) e giovane (28 anni) Alessandra Starabba di Rudinì, che apparve accanto a lui proprio alla prima de La figlia di Iorio, il 2 marzo 1904. Un doppio tradimento che graffiò l’anima e il cuore di Eleonora per sempre.
Quell’incomparabile “incantesimo solare” con il suo adorato Gabriele si interruppe, ma non quel legame troppo intenso, tanto che al Vittoriale nell’Officina, lo studio dove il Poeta trascorreva gran parte del suo tempo, campeggiava proprio il busto della Duse, coperto da un velo, e mille volte lui la ricorderà con affetto e gratitudine durante il resto della sua vita.
Gabriele ed Eleonora s’incontrarono per l’ultima volta nel 1922, all’Hotel Cavour di Milano; narra la leggenda che lui le si buttasse platealmente in ginocchio esclamando: «Quanto mi avete amato!» e che lei, aiutandolo a rialzarsi, replicasse: «Ma non sapete quanto vi ho dimenticato!».
La Duse fu adorata letteralmente dal pubblico di tutte le latitudini perché lei rappresentava la quintessenza del Teatro, nonostante tutto in lei fosse atipico, persino la voce, magica nei toni bassi, sensuale, roca. Il segreto? Crudele: la tisi le aveva scavato un polmone, dotandola di una sorta di cassa di risonanza.
Era mingherlina e diafana come un cameo, ma sul palcoscenico aveva una presenza scenica straordinaria. Rifiutò sempre trucchi, bustini e tinture di capelli a favore della naturalezza, ma spese somme favolose per gli abiti di scena, tutti meravigliosi.
Caratteristiche erano quelle che sono passate alla Storia come le “dusiane”, ovvero sontuose tuniche con amplissime maniche che le scendevano lungo i fianchi e che le conferivano un’aura ieratica e solenne.
Adorava il colore viola che indossava spessissimo sulla scena, a dispetto della superstizione degli attori e, anzi, molte volte fece disseminare il palcoscenico di petali di violette.
Lee Strasberg, il fondatore dell’Actor Studio, che andò ad assistere alle sue repliche durante l’ultima tournée americana del 1924, l’ammirava incondizionatamente; sarà lui a regalare un ritratto autografato da Eleonora stessa alla sua allieva prediletta, Marilyn Monroe, che lo terrà sempre nel suo camerino.
Il pittore Paul Klee, dopo aver assistito ad un suo spettacolo teatrale, definì la sua interpretazione “ipnotica, isterica, da morfinomane”.
Non si sbagliava: Eleonora, per calmare gli estenuanti accessi di tosse che le procurava la sua malattia, assumeva atropina e morfina, che le causavano, altresì, terribili sbalzi d’umore.
Nel 1909 dopo l’ennesimo trionfo con “La donna del mare” di Ibsen, con una decisione che stupì tutti, si ritirò dalle scene. Era stanca, depressa, malata, ma ebbe la forza, nel 1916, di apparire nel film muto “Cenere” tratto da un romanzo di Grazia Deledda.
Ma nel 1921 tornò a recitare e a vagare per il mondo, sempre acclamata, sempre adorata.
La tisi, però, non le dava tregua. E una polmonite le sarà esiziale.
A Pittsburgh il 21 aprile 1924, nello Schenley Hotel, si spense la più grande Attrice di tutti i tempi. Era nata in un albergo e morirà in un albergo colei che più di tutte le altre attrici il palcoscenico eternò nella Storia, il pubblico acclamò Divina, l’Amore rese disperata.