Rubrica coriandoli. Emilio Salgari, tigri, pirati e quel terribile suicidio

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La mattina del 25 Aprile 1911 Luigia Quirico si stava recando di buon’ora al santuario della Madonna del Pilone, a Torino. Era una bella mattinata primaverile e i prati erano in fiore.
Ad un tratto il suo urlo lacerò l’aria: sull’erba giaceva il corpo di un uomo orrendamente dilaniato.
Era quello Emilio Salgari, il grande scrittore di avventure e di sogni che era riverso supino, gli occhi sbarrati e il rasoio ancora in mano, su un soffice manto di primule e margherite.
Il sangue che scorreva copioso dal suo ventre e dal collo squarciato le aveva rese vermiglie.
Si era ucciso nel modo più terribile: praticando il seppuku, l’antico suicidio giapponese e l’aveva fatto con gli occhi rivolti al sole.
Lui stesso, secondo il rituale, aveva affondato la lama del rasoio nel ventre, squarciandolo prima da sinistra a destra e poi velocemente in alto.
E poiché accanto a lui non c’era un seguace o un altro adepto che, come prevede il rituale nipponico, per evitare al suicida la lenta e terribile agonia, era incaricato di recidergli la gola con un rapido fendente, era stato lui stesso a tagliarsela con il rasoio affilato.
Un suicidio crudele e ieratico pose fine ad un’esistenza tormentata, ad una disperazione e a una maledizione che lo aveva accompagnato da sempre e che si riverbererà su tutti i componenti della sua famiglia.

Emilio Salgari (con l’accento sulla seconda “a”) era nato a Verona il 21 Agosto 1862 da una famiglia di piccoli commercianti di stoffe. Era un ragazzo dalla fervida fantasia e animato da un’accesa ambizione, e amava tanto il mare da iscriversi all’istituto Nautico Sarpi di Venezia, dove non conseguì mai il diploma, pur pretendendo da allora in poi di essere chiamato con l’appellativo di “capitano” per tutta la vita.
E tanto ci teneva a questo (usurpato) titolo, che arrivò persino a sfidare a duello un cronista del giornale “L’Adige” che lo aveva deriso per il suo inesistente curriculum nautico; una volta divenuto giornalista per “La Nuova Arena” (l’altro importante quotidiano di Verona), firmò sempre i pezzi con lo pseudonimo di Ammiragliador.
E fu proprio su questo giornale che nel 1883 apparve a puntate “La tigre della Malesia”, il primo romanzo del fortunatissimo ciclo di Sandokan poi riedito in volume con il titolo “Le Tigri di Mompracem”. Per la cronaca: questo primo romanzo non gli portò alcuna retribuzione in soldi e Salgàri fu ripagato con una torta e una bottiglia di vino.
E non andò meglio con i suoi futuri 84 romanzi, i 150 fra racconti e novelle e tutti gli innumerevoli articoli scritti per i vari giornali: tradotti in mezzo mondo, arricchirono tre famose case editrici del tempo, Speirani, Donath e Bemporad, ma non lui.

Incredibile, vero? Il più letto e prolifico scrittore italiano di avventure (nel 1898 apparirà un altro suo grande successo, Il Corsaro Nero) visse sempre gravato da debiti e preoccupazioni familiari.
Aveva sposato Ida Peruzzi, un’attrice di Teatro, di cui era innamorato appassionatamente e che gli aveva dato quattro figli i cui nomi non sfuggirono alla sua mania per l’esotismo: Omar, Nadir, Romero e Fatima. L’amò di amore profondo e tenace e, appassionato di Verdi com’era, la ribattezzò Aida.
Era una donna bella, disinibita e carnale (anzi, pare fosse affetta da una sorta di voracità sessuale che lo debilitava), ma psicologicamente fragile e mentalmente instabile, e presto la vita accanto a lei si trasformò in un inferno con continue e violente crisi nervose da parte della donna, che mettevano in pericolo l’incolumità di Salgari e dei bambini.

Le cure per lei e per la figlia Fatima che fin da piccola era stata aggredita dalla tubercolosi erano costosissime e lui cercava di guadagnare lavorando alle sue opere e ai vari giornali in maniera forsennata, a ritmi micidiali, fumando 100 sigarette al giorno e reagendo all’ansia e alla depressione sempre in agguato (malattia di famiglia, dacché anche suo padre era morto suicida lanciandosi da un balcone) scolandosi bottiglie di marsala.
«Sono inchiodato al mio tavolo per molte ore al giorno ed alcune di notte, e quando riposo sono in biblioteca per documentarmi. Debbo scrivere a tutto vapore cartelle su cartelle e subito spedire agli editori senza aver avuto il tempo di rileggere e correggere», scriveva sconsolato al suo illustratore.
Già, la biblioteca. Quella di Torino, dove i Salgari si erano trasferiti dopo varie peregrinazioni a Ivrea e a Genova, era la sua seconda casa: lì trascorreva ore e ore a documentarsi, studiare dettagliatamente mappe, topografie, luoghi, abitudini, con una pignoleria che sfiorava l’acribìa monacense.
Non viaggiò mai, Emilio, ma scrisse di terre lontane mai visitate, con una fantasia ed una precisione così straordinarie che i milioni di ragazzi che lo lessero, grazie a lui, si videro proiettati in luoghi esotici da sogno: Malesia, Caraibi, India, Far West.
I suoi libri erano acclamati, i suoi personaggi facevano (e faranno) sognare generazioni di bambini e adolescenti, ma a differenza dei suoi colleghi Kipling, Verne e Dumas, Emilio Salgàri fu lo scrittore peggio pagato della sua epoca e visse sempre con la disperazione in tasca e nell’anima.

Il 3 Aprile 1897 su proposta della Regina d’Italia Margherita di Savoia, fu insignito del titolo di “Cavaliere dell’ordine della Corona d’Italia”, ma le cose, finanziariamente parlando, non migliorarono affatto.
Nel 1909 Salgari disperato per i debiti e per l’acuirsi della malattia mentale della moglie, tentò il suicidio gettandosi sopra una spada: fu salvato in tempo dalla figlia Fatima, ma l’appuntamento con la Nera Signora era solo rimandato.
Il 19 Aprile 1911, dopo una crisi nervosa della moglie più pericolosa delle altre, lo scrittore fu costretto a rinchiuderla nel manicomio di Collegno. Rimase solo, con quattro figli da mantenere di cui Fatima sempre più gravemente ammalata, senza una lira, disperato per la lontananza di Aida e sempre più oberato e affannato di lavoro.
E così, pochi giorni dopo, in quella luminosa mattina del 25 Aprile, decise di farla finita e uscì di casa stringendo in tasca il rasoio.
Sul tavolo della cucina aveva lasciato tre lettere: una ai figli («Sono un vinto, non vi lascio che 150 lire, più un credito di altre 600» che chissà se i figli riscossero mai), una ai direttori dei giornali, la terza agli editori che terminava con una frase passata alla Storia, un j’accuse straziante e implacabile: «A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle mantenendo me e la mia famiglia in una continua semimiseria o anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati, pensiate ai miei funerali. Vi saluto, spezzando la penna».

Oh sì, gli editori pensarono al funerale, non prima però di essersi recati nella sua modesta casa e averla saccheggiata di tutti gli appunti e bozze di novelle e romanzi che lo scrittore custodiva in una scatola.
Fu sfortunato anche ai funerali, povero Emilio: l’attenzione mediatica e sociale che avrebbe meritato era in quei giorni riservata alle celebrazioni del cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, protrattesi di un mese, e all’organizzazione dell’Esposizione Universale che Torino avrebbe ospitato pochi giorni dopo (l’inaugurazione ci sarebbe stata il 29 Aprile).
La maledizione dei Salgari: così si potrebbe intitolare un romanzo dedicato a questo geniale scrittore e alla sua famiglia, segnata da un destino impietoso.
Tre anni dopo infatti, a soli 18 anni morì Fatima, la sua amatissima figlia; anni dopo il figlio Romero, dopo aver tentato di uccidere moglie e cognato, si suiciderà, così come l’altro fratello Omar che si butterà dal balcone (come aveva fatto suo nonno), mentre Nadir perirà in un incidente d’auto.
L’amata moglie Aida, morì nel 1922 nel manicomio di Collegno di un male incurabile.