D’Annunzio l’aveva ribattezzata Coré, come la mitologica regina degli Inferi, ma lei si chiamava in realtà Luisa Amman, sposata Casati Stampa di Soncino.
Nata a Milano nel 1881 da una ricca famiglia, ebbe chiaro l’obiettivo della vita fin da giovanissima: «Voglio essere un’opera d’Arte vivente». Ci riuscì e i suoi lussi, i suoi eccessi, le sue stravaganze strabiliarono la Belle Époque.
Lugubre e tenebrosa (di qui l’appellativo dannunziano) Madame la Marchesa lo era davvero, creatura notturna degna di un incubo di Edgar Allan Poe: il viso reso cadaverico da ciprie e biacca, la capigliatura fiammeggiante, gli immensi occhi verdi (al cui splendore contribuiva l’assunzione a mo’ di collirio della venefica belladonna) bistrati pesantemente con inchiostro di china o sottili strisce di velluto nero.
Vestita sontuosamente quasi sempre di viola, di bianco o di nero, la si vedeva nelle località più chic del suo tempo con un ghepardo o un coccodrillino al guinzaglio e un boa constrictor vivo attorno al collo, mentre un gigantesco domestico di colore seminudo, verniciato d’oro, la seguiva con due levrieri cosparsi di cipria color malva e una scimmietta appollaiata sulla spalla.
Amava gli animali, Luisa, e le sue splendide dimore ne pullulavano: a Parigi accoglieva gli ospiti con una fantastica pantera nera imbalsamata accovacciata ai suoi piedi.
Cartier se ne innamorò e in suo onore creò gli splendidi gioielli con la testa di pantera, appunto, e l’animale divenne il simbolo stesso della Maison.
Sempre a Parigi, alle sue famose cene, faceva sedere a tavola, tra gli stupiti commensali, una statua di cera, esatta copia di se stessa, vestita con i suoi stessi abiti e che sarà anche inquietante spettatrice dei diabolici furori erotici che consumerà con d’Annunzio fra lenzuola di seta nera e centinaia di candele.
Compagna delle loro battaglie d’amore la cocaina, mescolata allo champagne.
Di droghe ne aveva sempre assunto, Coré: si illanguidiva con l’oppio o beveva assenzio versandolo direttamente dal pomo d’argento del suo bastone da passeggio.
Le feste da lei organizzate erano sbalorditive: ora un sontuoso ballo rinascimentale, ora un magnificente omaggio all’Oriente, in una si presenta con una coda di pavone in testa, in un’altra fa librare 2 milioni di farfalle…
Gli anni scorrono impietosi anche per la Divina Luisa e lei continua a dilapidare in lussi ed eccessi: le spese si fanno forsennate, la voglia di stupire irrefrenabile, il bisogno di denaro sempre più impellente e gli usurai, cui si affida, più sciacalli che mai.
Nel 1930, a quasi 50 anni, ha accumulato debiti per 25 milioni di euro attuali.
La catabasi, la sua personale discesa negli Inferi, iniziò inesorabile e drammatica.
Dovette dire addio alle principesche suites degli alberghi e alle sue dimore da sogno sparse per il mondo (fra cui il magnifico Palazzo Venier de’ Leoni a Venezia, poi acquistato da Peggy Guggenheim e la fastosa residenza di Arcore, ora Villa Berlusconi) che furono tutte vendute o ipotecate.
Andò a vivere a Londra, in una squallida stanzetta in affitto, ma non rinunciò mai al suo look di terrifica creatura, solo che ora i suoi famosi abiti neri erano tarlati e l’ombratura attorno ai celebri occhi era fatta con lucido da scarpe.
L’abbagliante Luisa Casati Stampa, colei che fu definita da Marinetti «la più grande Futurista del mondo» e da d’Annunzio «l’unica donna che mi abbia mai veramente stupito», morì nel 1957 a 76 anni.
Volle essere sepolta truccatissima e con indosso il suo vecchio mantello nero bordato di leopardo.
Come epitaffio sulla sua tomba, al Brompton Cemetery di Londra, una frase con cui Shakespeare nella sua tragedia Antonio e Cleopatra descrive la Regina d’Egitto: «L’età non può appassirla né l’abitudine rendere insipida la sua infinita varietà».