Rubrica coriandoli. L’arsenico: il principe dei veleni, il veleno dei principi

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“Arsenico e vecchi merletti” è il titolo di un divertente film, metà commedia, metà noir, diretto nel 1944 da Frank Capra con uno strepitoso Cary Grant, che interpreta il nipote di due amabili vecchine che si sbarazzano degli inquilini cui affittano le camere offrendo loro, con un ineffabile sorriso, un bicchierino di vino di sambuco corretto all’arsenico.

Che gli ignari ospiti bevono senza sospetti, dacché quest’ultimo è insapore ma dall’effetto letale.
Definito “il principe dei veleni e il veleno dei principi” l’arsenico è stato adottato, nella Storia, soprattutto negli intrighi di Corte e negli assassini politici.

Questo esiziale rimedio era conosciuto fin dall’antichità e lo cita già Aristotele nel IV secolo a.C., mentre il famoso medico persiano Avicenna, vissuto nel I secolo d.C., lo prescriveva addirittura per curare gli accessi di tosse (naturalmente a piccolissime dosi).

Mitridate, re del Ponto, acerrimo nemico degli antichi Romani, ne fece largo uso per annientare nemici e potenziali usurpatori e lo utilizzò per uccidere quattro dei suoi figli che ambivano al trono; quanto a lui, per evitare di essere a sua volta vittima di avvelenamento, soleva assumere una dose quotidiana di arsenico, continuata e progressiva, per assuefare l’organismo ai suoi effetti.

E così farà Agrippina, vanificando con questo stratagemma (chiamato appunto mitridatizzazione) il tentativo di suo figlio Nerone di avvelenarla.

L’arsenico, o meglio, l’anidride arseniosa, fu il veleno preferito per tutto il Medioevo e il Rinascimento; veniva mescolato alle carni, allora assai speziate e piccanti, o sciolto nei vini che all’epoca erano molto robusti e dall’aspetto torbido, ma veniva anche utilizzato nei modi più strani e ingegnosi: mediante gioielli, calze e guanti avvelenati, pagine di libro, di modo che il malcapitato, umettandosi il dito per voltarle, ingeriva il veleno direttamente (ricordate “Il nome della Rosa” di Umberto Eco?) e persino la cosiddetta “camicia all’italiana”, intrisa di veleno nella parte bassa, quella a contatto con le parti intime.

Nel Rinascimento in particolare, grande appassionata di pozioni e alambicchi fu Caterina de’ Medici che amava circondarsi di speziali e chimici i quali, oltre a rifornirla di cosmetici, le procuravano quei potentissimi veleni con cui lei faceva confezionare confetti e vivande.

Ma quando si parla di veleno, il pensiero corre, ça va sans dire, ai Borgia, una delle stirpi più potenti e nefande della Storia.
All’epoca, e parliamo della fine del XV secolo, sul soglio pontificio sedeva Papa Alessandro VI, che altri non era che Rodrigo Borgia, padre, nonostante la veste talare, di molti figli tra cui i sinistramente famosi
Cesare, detto il Valentino (la cui rifulgente e empia figura campeggia nel trattato di dottrina politica di Machiavelli “Il Principe”) e Lucrezia, figura ancor oggi enigmatica nel suo essere vittima o carnefice della sua terribile famiglia.

Orbene, negli anni di pontificato di Papa Borgia, tutti erano a conoscenza che nei sotterranei del Vaticano, notte e giorno, alchimisti distillavano in alambicchi fumanti pozioni di “cantarella”, che, a dispetto del vezzoso nome, era un veleno potentissimo, costituito da arsenico e viscere putride: essendo incolore ed insapore, poteva essere aspersa tranquillamente sugli abiti o sui cibi o sciolto nelle bevande, senza che la vittima si accorgesse di nulla.
La morte sopraggiungeva nelle successive 24 ore fra atroci tormenti.
Qualche studioso sostiene che la “cantarella” appartenesse alla stessa famiglia della “cantaridina”, che, se usata in piccole dosi, equivale ad un potente afrodisiaco, assai usato sia dai maschi di casa Borgia, che, più tardi, dal Marchese de Sade, il quale, oltre che assumerlo egli stesso, lo mescolava alla copertura zuccherina dei confetti all’anice profusi in gran quantità alle ignare amanti.

Quanto ai Borgia, la loro pratica di avvelenare nemici e ricchissimi prelati (per incamerarne le immani fortune) finì, come atto di accusa, su numerosi libelli e libriccini, uno dei quali è passato alla Storia con il nome di “Lettera a Sabelli”, un violentissimo pamphlet contro tutta la famiglia accusata di assassini, depravazioni, incesto e crudeltà inenarrabili.
L’autore, ahilui, venne smascherato dai gaglioffi di Cesare.
Il giorno dopo, sotto le finestre del Vaticano, si radunarono molte persone con il naso all’in su: attaccata ad un’inferriata si poteva ammirare una mano recisa, dal cui mignolo penzolava una lingua.
Minaccioso e assai persuasivo monito al silenzio.