Rubrica coriandoli: Mozart e il mistero del teschio

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Nell’Autunno del 1791, durante una passeggiata al Prater, il meraviglioso parco di Vienna, Mozart confidò alla moglie Konstanze il suo timore di essere stato avvelenato con una qualche sostanza a lento rilascio.
Male stava male davvero: da qualche giorno era debolissimo, camminava a fatica e le gambe la sera si gonfiavano a dismisura.

Beh, non è che Wolfgang, anzi, Johannes Chrysostomus Wolfgang Theophilus Mozart avesse mai goduto di buona salute! Tutt’altro. Alto (!) poco più di 1 metro e mezzo, il viso butterato dal vaiolo, una deformazione all’orecchio sinistro e una malformazione congenita ad un rene, era anche affetto da un lieve rachitismo e una forte miopia.
Non solo: pare soffrisse anche della “sindrome di Tourette” che gli faceva fare movimenti inconsulti e dire parolacce e frasi irripetibili al limite della blasfemia (di cui peraltro sono piene le sue lettere) e che alimentava il suo essere irridente, impudente e dispettoso come un folletto.

Ma era un Genio. Assoluto. Unico.
Iniziò a scrivere a 6 anni e nella sua breve Vita (morì a 35 anni) creò 626 composizioni che hanno spaziato in tutti i generi musicali, moltissime delle quali sono assurte a capolavori immortali che, al di là del nitore formale e del perfetto equilibrio architettonico, celano le vertigini dell’incipiente Romanticismo e le abissali profondità dell’animo umano.

Da piccolo lui e la sua talentuosa sorellina Nannerl avevano stupito le Corti di mezza Europa suonando con strabiliante bravura il clavicembalo; a sei anni, di fronte ad una divertita Maria Teresa, Imperatrice d’Austria, disse tutto serio alla piccola figlia di quest’ultima, Maria Antonietta (che di anni ne aveva 5) “da grande ti sposerò”.
Se la cosa si fosse avverata l’esistenza di quella bimba sarebbe stata assai diversa: sarebbe diventata la moglie di un Genio incompreso, povero e strambo e non quella di Luigi XVI di Francia, non avrebbe consigliato al popolo affamato di mangiare brioches e la sua testa non sarebbe rotolata sotto la lama della ghigliottina.

Le cose sarebbero andate diversamente, come sappiamo, anche per il giovane Wolfgang che, innamorato perso della volubile cantante lirica Aloysia Weber, fu da lei illuso e respinto; deluso e affranto, ripiegò sulla di lei sorella Kostanze dalla quale ebbe 4 figli, due dei quali morirono in tenerissima età e con lei condivise un’esistenza che, come spesso accade agli enfants prodiges, da sfavillante divenne opaca e struggente.
Il bimbetto stupefacente era diventato un compositore troppo ardito e innovatore per essere davvero compreso e osannato in Vita come avrebbe meritato e la frustrazione, le amarezze e le delusioni costellarono la sua breve esistenza.

Lavorava come un pazzo, Wolfgang, componendo in modo compulsivo, strapazzando il suo fisico gracile che cercava di corroborare con l’immancabile Schwartzpulver, un tonico allora in voga a base di lombrichi e cuore di rana e, soprattutto, con il “liquore di van Swieten” che conteneva un’alta percentuale del tossico mercurio.
Fu questo quindi ad avvelenarlo, e non la congiura dei suoi Fratelli Massoni (come si disse) o il pur malevolo e invidioso musicista Antonio Salieri (tesi quest’ultima fantasiosa e affascinante ripresa anche dal regista Milos Forman nel suo capolavoro “Amadeus”).
Povero Wolfgang, con la sua mania dei “ricostituenti” e le nottate trascorse in bianco ad assecondare il suo disperato furore creativo!
Nell’ultimo anno di Vita la situazione precipitò: non fu solo il suo fisico ad essere minato, ma anche la sua mente, presto abitata dai demoni della depressione.

Una notte, durante un temporale, uno sconosciuto bussò alla sua porta e gli commissionò un Requiem per la morte di un grande personaggio.
Lo sconosciuto altro non era che il servitore del Conte Walseg-Stuppach, un musicista dilettante che in realtà voleva solo appropriarsi della sua musica e farla passare per propria nella cerimonia di commemorazione dell’amata moglie.
Ma nella mente devastata di Wolfgang quel visitatore misterioso divenne un messaggero di morte. Della propria morte. E il magnificente Requiem che si apprestò a comporre, la Musica per la sua dipartita dal mondo.

Non riuscì a completare questo ennesimo capolavoro, Mozart (ci penserà il suo allievo Franz Xaver Sussmayr a farlo) perché nella notte fra il 5 e il 6 dicembre 1791, dopo aver composto la struggente “Lacrimosa”, spirò tra le braccia della moglie.
Indebitato com’era, al suo povero funerale, avvenuto sotto una tormenta di neve, a seguire il feretro solo la moglie e i due figlioletti.
Fu inumato nel cimitero viennese di San Marco in una tomba senza nome, come allora era d’uso per decreto dell’Imperatore Giuseppe II d’Asburgo-Lorena che aveva ordinato che i corpi fossero sepolti senza bara e non imbalsamati.
Quando Kostanze tornò l’indomani per portargli un fiore, complice l’ulteriore copiosa nevicata della notte e la mancanza di qualsiasi segno di riconoscimento, vagò per ore nel cimitero spettrale e non riuscì a rintracciarla.
Il più grande ed incompreso (al suo tempo) Genio della Musica fu condannato a giacere in un’anonima e sconosciuta tomba.

Ma c’è un mistero che aleggia attorno a lui e che riguarda un teschio, conservato al Mozarteum di Salisburgo e che molti sostengono appartenga al musicista.
Gli indizi a favore sono molti: corrispondono le dimensioni, il difetto dell’orecchio sinistro, la frattura alla testa, che Mozart si era procurato in effetti cadendo e che negli ultimi mesi gli aveva procurato cefalee lancinanti, e, particolare inquietante, quel laccio di ferro che il sacrestano di San Marco, Joseph Rothmayer, gli aveva messo al collo per conferire a quel povero corpo nudo un seppur sinistro segno di riconoscimento.
Che quel povero teschio appartenga davvero a Wolfgang Mozart non lo sappiamo, ma una cosa è incontrovertibile: egli vivrà per sempre, attraverso la sua eccelsa Musica, nei secoli dei secoli.