Rubrica coriandoli: Osvaldo Valenti e Luisa Ferida. Famosi, belli e dannati.

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È una sera di mezza estate del 1939. In uno dei ristoranti più eleganti di Roma, c’è una coppia che attira molti sguardi: Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, due tra gli attori più noti del momento.
Il regista Blasetti li ha fortemente voluti per il suo prossimo film, “Un’avventura di Salvator Rosa” preferendo, anzi, la bruna e sensuale Luisa alla bionda e algida Alida Valli; quanto a lui, è un attore di razza, adattissimo ai ruoli di “antagonista” e di “cattivo”, dal quale cliché non riuscirà mai ad uscire. Sul set, ma soprattutto nella Vita. Con conseguenze tragiche, come vedremo.

Con quella pellicola nasce una formidabile e carismatica coppia del Cinema italiano che l’anno seguente darà vita a magnifiche interpretazioni ne “La cena delle beffe” (eternato anche da quel primo seno nudo esibito dalla sensuale Clara Calamai) e ne “La corona di ferro” che vince la Coppa Mussolini alla Mostra di Venezia.

Nella Vita, al di là di un’ammirazione e attrazione reciproca non vanno, per il momento, perché lei è legata al suo produttore Checchino Salvi, di 14 anni più vecchio, e lui tracanna la Vita a grandi sorsate tra mille avventure, serate all’insegna della cocaina, viaggi e sregolatezze.

Ha 34 anni allora, Osvaldo, e una forte personalità, ma soprattutto è fascinoso (più che bello), esibizionista, sgargiante, indisponente, fanfarone, ricco, poliglotta (parla 6 lingue tra cui l’Arabo), intelligente ma non scaltro (e questo gli costerà caro), sicuro di sé fino all’insolenza (e anche questo non gli verrà perdonato), vicino al Fascismo ma non prono (si vanterà di non dare l’autarchico Voi ad alcuno, tranne ai suoi cani, e si produrrà sempre in gustose quanto irriverenti parodie del Duce), ma questo non lo salverà. Anzi.

Luisa di anni ne ha 26, viene da una famiglia modesta ed è bella, di una bellezza carnale e sanguigna, sguardo da gatta e zigomi da zingara di lusso, portamento fiero e un corpo che è tutto un invito al peccato.

Si annusano da lontano, ma poi scoppia la passione. Indomita, rapinosa, travolgente per entrambi. Lei gli si dona con una dolcezza e una dedizione mai sperimentate, lui la raffina, la inizia alla Cultura (e anche alla cocaina), ma soprattutto s’innamora. Stavolta sul serio.

Vanno a vivere insieme e impazziscono di gioia alla notizia che presto avranno un bambino.
Kim decidono di chiamarlo, coerenti in ciò con la smania di originalità che li connota.
Nasce quel bimbo ma vivrà solo poche ore, gettandoli nella prostrazione più cupa.
Conserveranno di lui una scarpina azzurra di lana che Osvaldo porterà sempre nel taschino vicino al cuore.

L’Estate successiva del ’43, ci riprovano e Luisa esce incinta. Sono pazzi di gioia ma hanno timore che accada ancora una volta qualcosa di irreparabile. Vogliono stare tranquilli e decidono di trascorrere qualche giorno in un piccolo borgo sul mare, pieno di luce e di gente ospitale.
Scelgono Roseto degli Abruzzi, sulla costa adriatica, e vanno ad alloggiare all’Albergo Roma.
Sono felici, sereni. Lo saranno ancora per poco.

Partono per Venezia e Luisa perde il bimbo che ha in grembo. Anche stavolta il dolore è acuto, immedicabile per entrambi.
Forse anche per reagire a questo sconforto lancinante, decidono di fare qualcosa di eclatante e, in quell’anno fratricida e tragico per l’Italia, vanno al Nord e Osvaldo, che pure non ha mai aderito al Fascismo, si lascia sedurre dalla Repubblica Sociale di Salò.

Si arruola nella Decima Mas di Junio Valerio Borghese, indossa con
spavalderia ed entusiasmo la divisa e si fa chiamare Sandokan. Ha bisogno di emozioni forti. In fondo è un animale da palcoscenico e anche stavolta interpreta un ruolo, come al Cinema, uno di quei ruoli che l’hanno reso celebre: occhi penetranti e sorriso beffardo sulle labbra.

Nell’estate del 1944 vanno a vivere all’Hotel Continental di Milano e qui Osvaldo conosce Pietro Koch, un losco figuro, spietato e senza scrupoli che in una dimora, denominata poi “Villa triste”, tortura i partigiani e organizza festini a base di coca.

Quando Osvaldo finisce in galera con l’accusa di ricettazione (era incaricato di procacciare carburante per la Decima Mas, ma qualcosa va storto), con leggerezza si rivolge proprio a Koch perché lo liberi. È l’inizio della fine. I due attori cominciano a frequentare quel famigerato luogo di via Paolo Uccello.

Ci vanno perché lì champagne e coca scorrono a fiumi e non certo per partecipare ai crudeli interrogatori di Koch e compagni. Anzi, Luisa, che è di nuovo incinta, si astiene dalla droga.
Osvaldo no. È tossicodipendente e Koch lo asseconda e lo blandisce. Lo fa con l’unico scopo di vantarsi in giro che tra i suoi ospiti ci sono anche gli attori più famosi del momento.
Sarà per loro l’inizio della fine.

Il Comitato di Liberazione Nazionale, convinto, solo in virtù di questa frequentazione che anche Osvaldo e Luisa siano dei torturatori, li condanna a morte.
I partigiani non hanno prove, non potrebbero averle, giacché la coppia non si è mai macchiata di simili delitti, né di altri, ma a loro poco importa.
La loro condanna è politica, chiaramente. Osvaldo e Luisa vengono condannati, pur se non hanno commesso crimine alcuno, soltanto perché sono gli attori più amati dal Regime Fascista, perché sono trasgressivi, spavaldi, fuori di ogni regola. Perché sono esibizionisti e vistosi. Perché, agli occhi del moralismo e perbenismo dell’epoca, rappresentano i “belli e dannati”, come Scott Fitzgerald e sua moglie Zelda.

Sarà “Vero” Marozin ad organizzare il tutto. Costui, comandante partigiano della brigata Pasubio, era stato condannato a morte dal CLN del Veneto con l’accusa di furti e atrocità d’ogni genere e per questo si era nascosto a Milano.
Sarà lui a organizzare il processo farsa per Osvaldo e Luisa.
E sarà sempre lui a confessare anni dopo:«Valenti era un guascone. Le sue colpe erano frutto delle sue vanterie. La Ferida non aveva fatto niente, ma era con lui.» Parole agghiaccianti.
Ma in quell’aprile del ’45 la decisione è stata presa e quando i due attori si rendono conto della tragedia incombente, ne sono increduli, attoniti, sconvolti.
Sono innocenti e vengono condannati a morte dai partigiani. Questo è.

Luisa potrebbe salvarsi, ma lei, che ha in grembo il figlio tanto desiderato da quell’uomo che tanto ama, non fugge. Come non fuggirà Claretta.
Anzi, gli si stringe ancora più forte. Piange, Luisa, ha solo 31 anni e mormora «Non voglio morire…non voglio morire…».
Lui le accarezza i capelli, disperato: «Luisina, nella vita e nella morte insieme».

30 aprile 1945, ore 23,45, via Poliziano a Milano.
I fari di un’auto illuminano una coppia abbracciata e atterrita. Una raffica di mitra si abbatte su di loro. Cadono, i corpi scomposti. L’auto si allontana via velocemente.
Luisa ha la mano sul grembo, su quel suo bimbo che non nascerà mai.
Osvaldo stringe nella sua la pantofolina azzurra di Kim. Quella che aveva sempre portato sul cuore.