Ava Gardner: gli infiniti amori e gli eccessi de “l’Animale più bello del Mondo”

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Un “coriandolo” di Daniela Musini, pubblicato per la testata Vanilla Magazine” su una delle stelle più famose di Hollywood.

Due occhi verdi che promettevano la perdizione e un corpo modellato per il peccato, un unico grande amore, Frank Sinatra, e mille passioni fugaci, una propensione pericolosa per corride e toreri e film che hanno fatto la storia del Cinema, bevute colossali e una fine solitaria: questa, in sintesi, la tumultuosa vita di una delle Dive più acclamate e desiderate di Hollywood.

Ava Lavinia Gardner nacque il 24 dicembre 1922 a Grabtown, piccola cittadina del North Carolina, ultima di sette figli di due coltivatori di tabacco di origine inglese, Jonas Bailey, alcolizzato cronico, e Mary Elizabeth Baker, bella e pragmatica.

È una bambina quando il padre, dopo il fallimento dell’attività, abbandona moglie e figli e sparisce, ma la madre, che è una tosta, non si dà per vinta e apre una piccola osteria a Bon Hill dove Ava e le sue sorelle vengono messe a lavorare come cameriere.

A scuola ci va poco e fino a vent’anni, per sua stessa ammissione, aveva letto solo due libri: la Bibbia e Via col vento di Margaret Mitchell «ma solo perché era ambientato dalle mie parti», aveva ammesso sincera.

Crescendo diventa sempre più bella e desiderabile e ogni volta che serve da bere i clienti se la mangiano con gli occhi: «Dovresti fare l’attrice» le dicono cercando di attaccare bottone, ma lei non risponde e li graffia con una di quelle sue tipiche occhiate da gatta selvatica.

Ava Gardner

Al Cinema non ci pensa: vuole diventare segretaria d’azienda e per questo si iscrive all’Atlantic Christian College Wilson, ma una foto scattatale dal cognato Larry Tarr e messa in bella mostra nella vetrina del suo negozio di fotografo a New York le cambia la vita.

In quel giorno di primavera del 1941 l’aria era croccante e il cielo di un azzurro insolente; Barry Duhan, un impiegato della Metro Goldwin Mayer, mentre bighellona per le strade della Grande Mela si imbatte in quella foto: i riverberi smeraldini di quegli occhi, gli zigomi scolpiti e quella impertinente fossetta sul mento lo incantano. Ne parla con il talent-scout Marvin Schenck e il resto è storia: Ava Lavinia Gardner viene convocata per un provino negli studi della MGM.

Quando apre bocca però tutti i presenti sghignazzano: il suo forte accento della Carolina del Nord è terribile; lei avvampa per la vergogna, saluta frettolosamente e a capo chino se ne torna al suo bar di Bon Hill.

Quel che non sa è che, nonostante la cadenza, ha colpito tutti e viene convocata per un secondo provino, muto stavolta: lei deve solo entrare nella stanza, guardare dentro la macchina da presa e sistemare dei fiori in un vaso. Rimangono tutti a bocca aperta: ha un portamento così regale, una fisicità così prorompente e un magnetismo talmente irresistibile che Louis Mayer, il potente e dispotico capo della Metro Goldwin Mayer esclama: «Non sa recitare. Non sa parlare. Ma è il più bell’animale del mondo. Arruolatela!» Crudo ma perspicace.

Ava viene quindi affidata a truccatori, maestri di dizione e di recitazione, a un bravo dentista e a maghi dell’immagine: la trasformano, insomma, in una delle Dive più celebri e celebrate del Cinema come era successo a Rita Haywoorth, Lana Turner e a Kim Novak, anche loro come lei costruite a tavolino.

Non aveva (e non avrà mai) il talento eccelso di Liz Taylor, Katharine Hepburn o Ingrid Bergman ma possedeva un fisico statuario e occhi tigrini che bucavano lo schermo. Aveva anche una personalità impetuosa ma dietro a quell’apparenza da Dea dominatrice, era fragile e insicura.

Cominciò così, per tentare di fugare l’ansia prima di entrare sul set, a buttare giù una bella sorsata di gin e poi durante le pause tra le riprese le sorsate divennero due, poi cinque fino ad arrivare a scolarsi intere bottiglie. L’alcol, già: sua debolezza e sua perdizione.

Le sue sbronze (ne condividerà una memorabile anche con Winston Churchill) diventeranno rinomate, così come le sue bravate da ubriaca, come quando con un Sinatra alticcio e spaccone si ritroverà a Palm Spring a sparare ai lampioni con una calibro 38, o come quando, già famosissima, verrà cacciata dall’Hotel Ritz di Madrid perché aveva fatto pipì nella hall.

Intanto, agli inizi della carriera, aveva conosciuto l’attore Mickey Rooney, il “piccoletto” di Hollywood (un metro e cinquantasette di talento, simpatia e travolgente vitalità) che da subito la tampina con una corte serrata.

mick rooney

Ava cede e si sposano nel gennaio del 1942: lei aveva diciannove anni ed era vergine, lui ventidue e così vorace di sesso («faceva all’amore con qualunque cosa si muovesse» dirà lei) da tradirla, incredibile a dirsi, con decine di donne.

Il culmine della sfrontatezza lo raggiunge quando Ava viene ricoverata d’urgenza in ospedale per un’appendicitectomia; lui l’accompagna in ospedale, le dà un bacio sulla fronte, poi torna a casa e si infila nel letto coniugale con un’infermiera conosciuta in clinica.

Per Ava è troppo. Divorziano e dopo un po’ lei cade tra le braccia del clarinettista jazz Artie Shaw, affascinante, colto e prepotente che sposa. Lui è rapito dalla sua femminilità, ma la costringe a fare il test d’intelligenza «perché pensava fossi stupida» rivelò lei con amarezza.

Artie ha una personalità forte e influente: la costringe a leggere Schopenhauer e a prendere lezioni di scacchi e quando lei comincia a rifilargli qualche scacco matto, lui reagisce rifilandole un paio di ceffoni.

Ceffoni che diventano quotidiani insieme a minacce e violenze psicologiche; Ava lo manda all’inferno e si butta a capofitto nel lavoro. Nel 1946, dopo una serie di particine minori, si fa notare ne I gangsters dove recita accanto ad un esordiente Burt Lancaster e il pubblico (soprattutto quello maschile) ne è stregato.

La paragonano alla pantera e di questa ha lo sguardo ipnotico e le movenze felpate e quando nel 1948 appare nella pellicola Il bacio di Venere nei panni a lei congeniali della Dea della bellezza e dell’amore, diventa un’icona universale di fascino e sensualità: il film non rimarrà negli annali della storia del Cinema, ma la sua statuaria bellezza sì.

Da allora non si ferma più e gira un film dopo l’altro, tracannando la vita a grandi sorsate come fa con il gin: fuma tre pacchetti di sigarette al giorno, spende tutto in maniera forsennata in vestiti e gioielli, e si porta a letto tutti gli uomini che vuole, perché si sa, le brave ragazze vanno in Paradiso, ma le altre se la godono un mondo.

E infatti le relazioni sentimentali o le avventure di una notte in cui si perde non si contano, quasi tutte vissute con i suoi partner cinematografici: Robert Mitchum con cui fuma hashish prima di fare l’amore, Robert Taylor, marito di Barbara Stanwick (che la odiò per questo), Gregory Peck, con il quale gira due film e consuma una vorace e brevissima relazione, e poi Curd Jurgens, Tyrone Power, Mel Ferrer, il paranoico produttore-aviatore Howard Hughes, il playboy Porfirio Rubirosa.

Clark Gable, con cui girò due pellicole, I trafficanti e Mogambo, dirà di lei: «È la donna più affascinante e aggressiva che abbia mai incontrato, una donna che può anche farti impazzire, al punto che devi lasciarla per forza. E, prima di lasciarla, devi anche picchiarla per bene. Una donna selvaggia, che non sai mai quello che vuole. Le dai tenerezza e diventa selvaggia. Le rispondi con la violenza e diventa dolce come una gattina. La cerchi e lei scappa. Giura di amarti ed è pronta a tradirti. Mai vista una donna che ha tradito tanto i suoi mariti che gli amanti. I suoi splendidi occhi di tigre hanno fatto e continuano a fare stragi.»

Si prende una sbandata anche per Richard Burton quando reciteranno insieme nel film La notte dell’iguana, ma gli occhi viola di Elisabeth Taylor sua moglie ebbero la meglio sui suoi, seppure altrettanto magnetici: gelosa e guardinga com’era, Liz seppe proteggere con le unghie e con i denti il suo matrimonio con l’adorato Dick e vanificare ogni tentativo di seduzione da parte della collega rubamariti.

E lei si vendicò anni dopo con una battuta al curaro: «Elizabeth Taylor? Era carina. Io ero bella.»

La Gardner ebbe una vita sentimentale ed erotica sbrigliata, è vero, ma lei, a differenza di molte altre attrici, non usò mai la sua bellezza come merce di scambio; troppo orgogliosa e indipendente, non cedette all’umiliante procedura di passare per l’alcova di produttori e registi per recitare in film famosi e se qualcuno di loro ne ebbe per amante, fu una sua libera scelta.

S’imbarcò anche in relazioni pericolose, come quella con il mafioso Bugsy Siegel, il creatore di Las Vegas e a qualcuno diede il due di picche, come a Humphrey Bogart che bollò come «bastardo» o a Onassis stigmatizzato come «un primitivo allupato con lo yacht», o al regista John Huston che una notte si infilò nella camera d’albergo dove lei dormiva ma che fu accompagnato alla porta senza se e senza ma.

Sarà vorace e trasgressiva, sensuale e spregiudicata fino alla morte e alla domanda imbecille di un giornalista «quanti amanti ha avuto signora Gardner?» rispose annoiata «non ho mai tenuto il conto.»

Sinatra

Ma uno e uno solo fu il suo unico, grande amore: Frank Sinatra.

Si conoscono per strada il 10 febbraio 1949 sul Sunset Boulevard che li conduceva a Los Angeles entrambi diretti alla festa per i 25 anni della Metro Goldwin Mayer. Lui alla guida di una Cadillac nera affianca e poi sorpassa la Cadillac verde scuro guidata dall’autista dove lei siede elegantissima e regale sul sedile posteriore.

Un’occhiata, un sorriso e poi il gioco intrigante di sorpassi e controsorpassi sì che lei dirà divertita: «Riesce a flirtare anche alla guida di un’auto!»

Lana Turner (con la quale ha un’amicizia che alcuni sostengono innervata da un coté omoerotico) cerca di dissuaderla, dato che lo conosceva bene essendone stata l’amante, ma Ava non vuole sentir ragioni: è notoriamente testarda e perdutamente innamorata e così lui divorzia dalla moglie Nancy e il 7 novembre 1951 si sposano.

Fu una storia d’amore intensa e bruciante che non finirà neppure quando finirà, perché erano davvero innamorati quei due, e così maledettamente simili tanto che una sua sorella le aveva detto: «Sei Frank in reggicalze» e lei, maliziosa, aveva risposto: «hai ragione. Tra le lenzuola è impareggiabile.»

Sinatra è pazzo di lei, il suo Uragano, come la chiamava e lei per amore sopporta anche le sue stranezze, i parrucchini confezionati da Max Factor, le quattro docce al giorno (nutriva una vera ossessione per l’igiene, impara a mangiare gli spaghetti al dente e la parmigiana di melanzane di cui lui, italiano d’origine e di gusti, andava matto.

In quel 1951 il film  Pandora accanto a James Mason la consacra attrice di fama internazionale tanto che nella cittadina di Tossa del Mar, in Spagna dove il film fu girato, eressero una statua a grandezza naturale con le sue fattezze.

Sarà la volta di altri due grandi successi: Le nevi del Kilimangiaro, diretto da Henry King e tratto da un racconto di Hemingway, e soprattutto Mogambo del grande John Ford che la vede accanto a Clarke Gable e ad un’avvenente Grace Kelly. Ava è così convincente nelle vesti della ballerina Eloise Kelly-latte e miele da meritare la candidatura all’Oscar 1954 quale migliore attrice protagonista (soffiatole da Audrey Hepburn in Vacanze romane).

Sul set di quel film scopre di essere incinta, ma lei quel bimbo non lo vuole: non avverte la spinta alla maternità, non vuole rinunciare alla libertà e soprattutto non vuole interrompere una carriera  sfolgorante. Nasconde al suo Frank la gravidanza e abortisce di nascosto a Londra; quando lui lo scopre dà di matto, le punta la pistola contro urlando, e poi dà sfogo alla sua rabbia sparando al materasso su cui lei era distesa.

Si amano, certo, ma quell’aborto, la possessività di lui e la sete d’indipendenza di lei, gli eccessi di entrambi e lo stritolante star system in cui ci sono dentro fino al collo, minano le fondamenta di quel grande amore. Cominciano i dissapori, le liti, i raggelanti silenzi.

Si lasciano. Sinatra tenta il suicidio (lo farà due volte), lei se ne va in Spagna a girare La contessa scalza di Mankievcz e a tutti appare perfetta nel ruolo rubato niente meno che a Rita Hayworth di Maria Vargas (una ballerina spagnola dall’esistenza turbinosa), ruolo cucitole addosso così come gli splendidi abiti creati appositamente per lei dalle Sorelle Fontana.

hemingway

In Spagna la raggiunge Ernest Hemingway, compagno ideale di robuste bevute e veloci affondi notturni. Lei lo adora e ha già recitato in due film tratti dai suoi libri: Le nevi del Kilimangiaro e Il sole sorgerà ancora, trasposizione cinematografica del suo romanzo Fiesta. È lo scrittore ad introdurla all’arte della tauromachia di cui Ava, presa da folgorante passione, sarà sempre una aficionada.

Un giorno assiste ad una corrida del celebre matador Luis Dominguin: la vista di lui abbagliante nel suo traje de luces, l’abito di luci da torero, che incede con un portamento che è insieme danza, fascinazione ed erotismo, la ubriaca più dei Martini che usualmente ingolla.

Si esalta alla vista della plaza de toros e della folla inneggiante, guarda eccitata i matadores, i picadores a cavallo, gli agili banderilleros e si esalta alle destrezze di Dominguin che manovra con posture da flamenco la capote, la mantella di tela rigida bicolore, ed è Ernst, grande esperto di corride, a spiegarle il significato dei due colori contrastanti: «il lato fucsia rappresenta la buena suerte, quello giallo la sfortuna, sempre in agguato in ogni corrida».

Luis, elegante e teatrale, agita con sapienza ritmica la muleta rossa durante la suerte suprema, l’ultima fase della corrida, lei trattiene il fiato quando lo vede fissare il toro per poi ucciderlo con la estocada finale. La folla gli tributa un’ovazione parossistica, mentre il sangue copioso dell’animale ferito a morte impregna la sabbia gialla dell’arena. Poi lui si gira verso di lei e la guarda con occhi febbrili e Ava  capisce in quel momento che anche lei, come quel toro, non ha scampo.

Scoppia una passione fulminea e carnale. Narra la leggenda che dopo aver fatto l’amore per la prima volta, lui, il matador dalle mille donne e dal corpo martoriato da ben 143 ferite da combattimento, si sia rivestito in fretta per andarsene, e alla domanda di un’Ava interdetta  «Dove vai?», lui abbia risposto: «a raccontarlo agli amici!»

Ad Ava i toreri e il loro alone fascinoso di hombres calientes e coraggiosi piacevano molto; Dominguin non fu il primo e non sarà l’ultimo: prima di lui Mario Cabre, dopo di lui Alfredo Leal.

Comunque sia in quel 1954 la Gardner e Dominguin sono la coppia più rifulgente e fotografata d’Europa: lui, audace e virile, lei, bella e sfrontata (Paco Cano, fotografo spagnolo di corride e di Madonne, disse di lei: «con il permesso della Vergine Maria, è la donna più bella che abbia mai incontrato»).

Ava di lui amava «l’ironia intelligente, la bellezza virile, la tenerezza segreta», lui di lei l’incandescente carnalità e l’impudenza, impudenza che la fa scendere nell’arena ad aizzare scherzosamente con la muleta il toro, ma questi, che evidentemente non era in vena di burle, le sferra un calcio che per fortuna la colpisce al viso di striscio (ma le lascerà i segni per sempre).

Dominguin però ad una cena incontra l’aristocratico volto di Lucia Bosé, fidanzata allora (castamente, sottolineerà lei) con Walter Chiari e s’innamora a prima vista; tre settimane dopo la chiede in moglie e dopo pochi mesi si sposano (testimone di nozze per lei Luchino Visconti che l’aveva scoperta mentre faceva la commessa in una pasticceria di Milano).

Ava e Walter sono trasecolati,  umiliati e furibondi. Ma il Destino si diverte ad intrecciare i fili dell’esistenza e i palpiti del cuore.

Due anni dopo Ava gira in Italia La Capannina e chi c’è fra gli interpreti? Walter Chiari, sì proprio lui, bello, simpatico e vitalissimo.

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Walter la travolge con la sua simpatia, il calore della sua meridionalità (era di origine pugliese), la passionalità e la dolcezza. Lei ne è inebriata, lui innamorato perso e la rincorre come un dannato dovunque, la scorrazza per la Roma irripetibile della dolce vita, fa a cazzotti con i paparazzi (che allora non si chiamavano ancora così), ma per lei quel flirt rappresenta solo una parentesi divertente nella sua esistenza fiammeggiante e scomposta.

Basta un’imitazione un po’ goliardica e parecchio ingenua che una sera ad una cena con amici Walter fa di Sinatra, che Ava lo incenerisce con il lampo verde dei suoi occhi e in mezzo al gelo sceso all’improvviso sull’allegra brigata, agguanta la sua pelliccia e si fa portare con un taxi a Fiumicino. In abito da sera e furente prende il primo aereo per gli States e addio a Walter, alle sue barzellette esilaranti e alle orecchiette alle cime di rapa che lui le cucinava alle due di notte.

Walter è ancora una volta tramortito, lei continua la sua esistenza senza collare.

Ava torna al successo con il film campione di incassi La Maja desnuda in cui dà volto e statuario corpo a Maria Cayetana, Duchessa d’Alba, amante e modella del pittore Francisco Goya (interpretato da Anthony Franciosa).

Sarà il suo ultimo film in cui domina la scena da protagonista e seduce ancora il mondo.

Negli anni Sessanta la sua carriera comincia a subire una flessione anche se partecipa al kolossal 55 giorni a Pechino insieme a due mostri sacri, Charlton Heston e David Niven, e nel 1966 appare nella Bibbia di John Houston nelle vesti di Sara, la moglie di Abramo, interpretato da George C. Scott. La finzione si trasmuta in realtà e i due diventano amanti. È però una relazione turbolenta e dolorosa: Scott è prepotente e possessivo e arriva a picchiarla e a lussarle una spalla tanto che Ava deve indossare un tutore sul set mimetizzato dagli abiti di scena.

Lei scappa, lui la riacciuffa e la ricopre di lividi. Resiste due anni e poi lo lascia definitivamente.

Nel 1967 Ava perde una grande occasione per rilanciarsi: il regista Mike Nichols la vuole per interpretare la sensuale e spregiudicata Mrs Robinson nel suo capolavoro Il laureato ma lei, pur essendo ancora bella e desiderabile, pone una condizione irremovibile: «non mi spoglio» e la parte va alla conturbante Anne Bancroft.

La sua vita intanto si fa sempre più disordinata: beve fino a stordirsi, si prende amanti giovani di cui al mattino non ricorda neppure il nome, sperpera denaro in mille rivoli, si sorprende spesso a guardarsi allo specchio e piangere.

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Il suo volto riverbera ancora le tracce dell’antica bellezza, ma comincia ad essere solcato da rughe impietose, la voce è diventata tragicamente gracchiante per colpa delle 60 sigarette che fuma al giorno e il celebre sguardo di smeraldo s’è appannato come una gemma falsa.

Negli anni Settanta le sono riservati ancora dei ruoli di una certa importanza nel western di John Huston L’uomo dai sette capestri accanto a Paul Newman e ad un’angelica Jacqueline Bisset, in Cassandra Crossing con Sophia Loren e Richard Harris e in alcuni film del filone “catastrofico” tipico di quel periodo, fino all’ultimo ruolo di spessore che è quello di Agrippina nella miniserie A.D. Anno Domini del 1985.

Il declino è, come per molte dive hollywoodiane, malinconico e solitario.

Va a vivere a Londra, in una villetta signorile dell’elegante quartiere di Kensington in compagnia di un cagnolino e di un giovane filippino che l’accudisce.

È sempre più sola e rabbiosa e sta rintanata giorni interi nella sua camera dal letto a baldacchino di prezioso tessuto bianco e blu con disegni simili al giglio fiorentino che si rincorrono anche sulle pareti; scaccia malamente i fan che pure vorrebbero ancora testimoniarle ammirazione e affetto e s’attacca sempre più spesso alla bottiglia.

Nei suoi armadi un tempo riboccanti di abiti sontuosi ora ci sono soltanto jeans e maglioni; sul tavolino del salone campeggiano solo due fotografie: in una è ritratta lei su un prato, sorridente e  abbracciata al suo cagnolino, un’altra, con dedica, raffigura Maria Callas, che adorava.

Con il suo caratteraccio e la pessima reputazione di rubamariti,  di amiche ne aveva avute ben poche: una di queste era Grace Kelly, di cui lei stessa raccontò nelle sue memorie «amava fare scommesse; una volta abbiamo scommesso 20 dollari che Hyde Park fosse più grande del Principato. Lei diceva di no. Vinsi io. Mi mandò i dollari, una bottiglia magnum di Dom Perignon e un pacchetto di aspirine per dopo la sbornia. Mi conosceva bene.»

Nel 1986 un ictus le paralizza il braccio sinistro e a causa di un’enfisema polmonare è costretta a trascorre ore attaccata ad una bombola d’ossigeno. Sinatra d’oltreoceano la chiama spesso e le paga tutte le spese mediche.

Ava Lavinia Gardner morì il 25 gennaio 1990, a 67 anni e un mese, sola e lontana anni luce da quella galassia abbagliante che era stata la Hollywood della sua epoca.

Un giorno con amarezza aveva detto: «Non ho guadagnato nulla di buono dai miei amori se non anni di psicanalisi».

Ma un uomo che l’aveva amata per davvero, perdutamente e per sempre c’era stato e alla notizia della sua morte aveva pianto disperatamente.

The voice, si sa,  non aveva potuto, né voluto dimenticarla.