Rubrica coriandoli: Maria D’Avalos e Fabrizio Carafa. Una storia d’amore e morte nella Napoli barocca

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Siamo nel 1590. Le ombre cupe e sontuose del Barocco Italiano si allungano sugli ultimi scorci del Rinascimento e fanno da fondale al genio maledetto del Caravaggio, alla “maraviglia” dei versi del Marino, alle turbe mentali di Torquato Tasso, alla stupefacente maestria del musicista Carlo Gesualdo da Venosa, protagonista della storia che vado a raccontarvi.

Carlo, Principe di Venosa, nato nel 1566, era all’epoca, nonostante la giovanissima età, un musicista eccelso ed innovatore, autore di raffinatissimi madrigali.
Quattro anni prima, all’età di 20 anni, aveva sposato la sua bellissima cugina Maria d’Avalos, più grande di lui di 6 anni (e già due volte vedova), con una cerimonia di inusitata magnificenza cui aveva partecipato tutta la Napoli bene del tempo.
I due sposi andarono ad abitare nel cupo e imponente Palazzo dei Principi di Sansevero, attigua al quale si ergeva (allora come ora) l’inquietante e misterica Cappella Sansevero, da sempre scrigno di opere d’arte di inestimabile bellezza.

Ma presto Maria cominciò ad avvertire il laccio di un matrimonio divenuto a poco a poco cupo e tormentato come l’animo di suo marito Carlo, musicista mirabile sì, ma uomo introverso e votato alla malinconia.
Si guardò attorno, l’irrequieta Maria, e ad una aristocratica festa da ballo in uno degli splendidi palazzi nobiliari partenopei, incontrò il Duca Fabrizio Carafa, soprannominato “l’Arcangelo” (tale era la sua bellezza), ma che di angelico nulla aveva, ché anzi era di spavalda e maschia avvenenza.
Si innamorarono perdutamente quella sera stessa, nonostante i rispettivi matrimoni e i rispettivi figli, e nulla fecero per contenere e arginare quella passione che da subito si mostrò sbrigliata, incontenibile, carnalissima.

A Napoli la notizia di questo adulterio consumato senza ritegno cominciò a serpeggiare fra le aristocratiche dimore e nei vicoli oscuri. Qualcuno sussurrò qualcosa all’orecchio di Carlo Gesualdo e da subito il tossico della vendetta si insinuò nella sua mente, ossessivo come un incubo.
La mattina del 16 Ottobre 1590 Carlo avverte la bella moglie che sarebbe andato fuori a caccia per alcuni giorni e parte con il suo seguito di scudieri e servitori.
Maria lo guarda andar via dai vetri del salone e un sorriso segreto le schiude le labbra: pregusta già le delizie dell’Eros che al calar delle tenebre avrebbe assaporato con il suo Fabrizio.
Non sa che suo marito le ha teso una trappola. Esiziale.

Nella notte fra il 16 e il 17, mentre i due amanti sono avvinghiati nell’abbraccio carnale, il marito, seguito dai suoi scagnozzi, rientra all’improvviso e fa irruzione nel talamo nuziale.
Nelle cupe stanze di Palazzo San Severo si odono riecheggiare allora grida di terrore e vane ed accorate richieste di pietà. Tutto inutile.
Le alabarde e i pugnali fanno scempio di quei bellissimi corpi nudi e le spesse mura si screziano di rosso.

Poi, mentre Carlo Gesualdo, accecato dall’odio, stravolto dalla gelosia, le vesti ancora lorde di sangue, fuggì piangendo e gridando per le strade di Napoli, gli inservienti, come loro ordinato, trascinarono i cadaveri dei due amanti fino alla scalinata del Palazzo che venne aperto a tutti, perché tutti vedessero.
Tutta Napoli si accalcò, chi mosso da pietà, chi da morbosa curiosità, e tutta Napoli inorridì vedendo quei giovani corpi sfregiati…il bel volto di Fabrizio Carafa sfigurato e irriconoscibile, il ventre di Maria d’Avalos squarciato con rabbia.
Ed era così bella, Maria anche da morta, che, si racconta, un frate, nottetempo, si introducesse a Palazzo e, mosso da insana pulsione erotica, arrivasse persino a profanarne il corpo, macchiandosi dello stesso oltraggio che Achille aveva riservato a Pentesilea, regina delle Amazzoni.

Carlo, il marito tradito e pazzo di dolore, si rifugiò nella sua fortezza di Gesualdo, un borgo campano ma, per timore della vendetta delle famiglie d’Avalos e Carafa, fece radere al suolo l’intero bosco di abeti e di querce che la circondava, così da avere la visuale libera.
Non fu condannato, dacché il suo era stato un delitto d’onore che a quei tempi era contemplato, ma qualcuno dei parenti dei due giovani amanti trucidati lanciò una maledizione su Palazzo San Severo e sui suoi futuri abitanti fino alla settima generazione.
Sarà un caso, ma nel 1889 l’ala del Palazzo dove era ubicata la stanza da letto, teatro dell’atroce duplice delitto, crollò…

Dicono che quella stessa notte apparve tra i vicoli adiacenti, il fantasma di una donna discinta, scarmigliata e singhiozzante.
E da allora, ancora oggi, nelle notti illuni, questa apparizione sconvolge chi ha la sventura di imbattersi.
Chi l’ha incontrata giura che è lei, Maria d’Avalos, “la più bella di Napoli” che vaga disperata alla ricerca del suo Fabrizio.
A loro, amanti appassionati e sfortunati, la cui vicenda ancora commuove, Torquato Tasso dedicò versi immortali:
“Alme leggiadre a maraviglia e belle
Che soffriste morendo aspro martirio”…

Nella foto: “Scudo con testa di Medusa” del Caravaggio 1597

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