Rubrica coriandoli. Camille Claudel: la passione, i furori, la follia

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Il 6 Marzo 1883 Auguste Rodin entrò nell’aula di scultura dell’Accademia Colarossi di Parigi per tenere delle lezioni in sostituzione del suo amico e collega Alfredo Boucher; fu lì che conobbe l’allieva più promettente del corso, Camille Claudel, e fu da quel momento che la sua vita cambiò.
Tra di loro intercorrevano 24 anni di differenza: lui, Auguste, aveva 42 anni, era uno scultore di successo e di vigorosa ed erotica plasticità, aveva una compagna, Rose (che gli aveva dato un figlio) e fama di tombeur de femmes.
Camille di anni ne aveva 19, era dotata nonostante la giovane età di notevole maestria, aveva un fratello, Paul, che l’adorava (ma che si rivelerà insensibile ed egoista), uno dei più grandi scrittori del tempo, una madre, Louise Athanaïse Cerveaux, austera e anaffettiva fino alla crudeltà, e un animo complesso e tormentato.

Camille dalla sua verdeggiante cittadina natale, Fère-en-Tardenois, dove era nata l’8 Dicembre 1864, si era trasferita con la famiglia a Parigi, e dava forma alle sue emozioni e ai suoi fantasmi nell’argilla, nel marmo e persino nell’onice.
Il tutto osteggiato dalla moralista ed arcigna madre che disprezzava gli artisti e mal tollerava lo spirito indipendente e caustico della figlia. Era bella, Camille, e anche ribelle e sarcastica e attirava gli uomini, nonostante la lieve zoppìa da cui era affetta.
L’incontro con Rodin, con le sue ossessioni erotiche, con la sua passionalità d’uomo e d’Artista a sconvolgerle l’esistenza fino alle estreme conseguenze. Ne diventa Musa, allieva, amante e collaboratrice.
Passione la loro, al calor bianco, accesa, totalizzante, furente, disperata, intossicata dalla gelosia prima e dalla rabbia e dal rimpianto poi, ma che produrrà anche un sodalizio artistico proficuo e talmente osmotico che non si capisce, in alcune sculture modellate insieme, dove inizi la mano del Maestro e dove quella dell’allieva.

Le confessa di non poter trascorrere neppure un giorno senza vederla, ma non tronca la stanca e lunga relazione con la sua Rose.
Camille soffre e sbraita: è gelosa, possessiva, esclusivista, lo vuole tutto per sé, non accetta quella convivenza e soprattutto le modelle che turbinano nell’atelier di Rodin e che vengono da lui immortalate e concupite.
Per farlo ingelosire, intesse una relazione con il compositore Claude Debussy, ma appena Rodin, pazzo di gelosia la richiama a sé, lei torna da lui, illudendosi che il suo Auguste finalmente lascerà la famiglia.
Non accade neppure stavolta. Camille allora lo lascia; lui la scolpisce per l’ultima volta in un’opera in bronzo dal titolo significativo de “L’adieu” e lascia Parigi, rifugiandosi insieme alla compagna e al figlioletto a Sèvres, e anche se la nostalgia di Camille e la gelosia lo corrodono e lo tormentano, non cercherà di riconquistarla.
Per Camille da quel momento inizia la catabasi, la discesa agli Inferi. Senza il suo Auguste, il suo vampante amore, la sua avvolgente protezione, il suo supporto economico, si lascia andare: comincia a mangiare bulimicamente, beve, trascura l’igiene, ingrassa, rifiuta di cambiarsi d’abito.
Quell’amore bello e dannato diventa un tossico per l’anima.

E i demoni s’impossessano della sua mente. Iniziano i deliri, le manie di persecuzione, le accuse farneticanti contro Rodin cui spedisce decine di lettere piene di insulti in cui lo accusa di complottare contro di lei per distruggerla come donna e come artista.
Il degrado diventa sempre più devastante: Camille si barrica nel suo atelier che riempie di decine di gatti, non si lava, vende tutti i mobili e si aggira in quel luogo buio (aveva serrato con un chiavistello la porta e ricoperto con pesanti e polverose tende le finestre) e sporco i cui unici elementi erano un letto dalle lenzuola lerce e una poltrona sfondata.
La notizia della morte del padre Louis, l’unico della famiglia che l’aveva sempre amata e apprezzata, nel 1913 la lascia inebetita dal dolore e da quel momento precipita nel gorgo nero della disperazione.

I familiari e sua madre in primis decidono di farla internare all’ospedale psichiatrico di Ville-Evrard: viene prelevata a forza da due infermieri che entrano rompendo il vetro di una finestra e la spingono a forza sull’ambulanza. I vicini la vedono scarmigliata, sporca, l’abito a brandelli e terrorizzata: l’ombra cupa della fanciulla sinuosa e bella di un tempo.
Rodin, alla notizia di quell’internamento, rimane sconvolto e invia denaro all’Istituto affinché la trattino bene, ma si guarda dall’andare a trovarla, così come farà l’algida madre, che, anzi, ordinerà al Direttore dell’istituto psichiatrico di distruggere le disperate lettere che ostinatamente Camille le scrive, ma alle quali non risponderà mai.
Erano lettere accorate, struggenti, furenti: continue richieste di aiuto, di una visita, di un gesto di affetto e di pietà umana e suppliche di toglierla dall’inferno del manicomio, dove Camille udiva le urla delle altre internate e dove si sentiva impazzire, lei che pazza non era ma solo disperata.

Un silenzio crudele e assordante quello di maman per i trent’anni in cui rimase internata, così come quello degli altri familiari che l’abbandonarono ad una solitudine straziante.
Suo fratello, il cattolicissimo Paul, non le scriverà mai e andrà a trovarla sì e no quattro volte in tutto. E quando, nell’Ottobre 1943 il direttore dell’ospedale lo avverte che sua sorella ha smesso di mangiare ed è allo stremo, va sì a visitarla, si commuove pure (e compone “Le cantique des Cantiques”), ma neppure allora la riporta a casa e la lascia morire lì.
Camille Claudel, la più grande scultrice del Novecento, il 19 di quel mese sarà sepolta in una fossa comune nel cimitero del manicomio.
Ad accompagnare la salma per l’ultimo saluto, due pietosi infermieri. E nessun altro.