Rubrica coriandoli. D’Annunzio e la frittata volata in paradiso.

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«Chi conosce l’arte della frittata? “fretada rognosa”. io, io solo, e per testimoniana celeste», e ancora: «Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale».
A scrivere con codesto tono corsaro era naturalmente il Divino Gabriele d’Annunzio che notoriamente andava matto per le uova (tanto che al Vittoriale, la sua fastosa residenza a Gardone Riviera aveva fatto allestire un nutrito pollaio) e ne mangiava anche cinque al giorno.

A Francavilla al Mare, deliziosa cittadina rivierasca abruzzese, in un giorno abbagliante d’estate, dopo essersi attardato «nella delizia del bagno e nella gara di nuoto» con i suoi amici abruzzesi Barbella, Michetti e Tosti, volle provvedere al pranzo quotidiano, producendosi in una portentosa frittata di ben 33 uova.

Prelevate la materia prima dal loro «pollaio esemplare», rientrò nello studio del suo amico pittore Francesco Paolo Michetti e, avvolto «in una veste di lino rapita ad Ebe» le sbattè «con mano prode e sapiente», facendole poi scivolare in una padella «dal manico lungo come quel (…) di una tiorba»
Ricordiamo, così, tanto per rinfrescar la memoria, che Ebe era la figlia di Giove e Giunone, Dea della giovinezza a cui sull’Olimpo era stato dato l’incarico di versare nettare e ambrosia agli Dei, e che la tiorba era uno strumento a corda della famiglia del liuto in voga a partire da fine Cinquecento.

«La grande arte si pare nel rivoltar la frittata per dar ugual cottura all’altra banda», continua il Vate; poi, siccome fuori annottava e la stanza era rischiarata da una luce fioca e incerta, uscì all’aria aperta e lì… ma lasciamo parlare l’Imaginifico: «scorsi l’armilla della nova luna nel cielo glauco, adunai la sapienza esatta e il misurato vigore nelle mie braccia e nelle mani che reggevano il manico…diedi il colpo, attentissimo a ricevere la frittata riversa».

Ma la frittata non ricadde. Dov’era finita? Che domande! Una frittata dannunziana non poteva finire che tra i Beati, portata in Cielo da un Angelo malandrino, che l’aveva rapita a volo.
«Non imitava forse la dorata ritondità dell’aureola?» si chiede soave il Poeta.
Certo, e infatti ora in Paradiso «ell’è per secoli dei secoli l’aureola di Sainte Omelette».