Rubrica coriandoli. Kiki de Montparnasse, la più folle, la più ruggente, la più indecente

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Parigi, 1917. La Grande Guerra devasta l’Europa e nella livida Ville Lumière si aggira una sedicenne dal viso impertinente e dal corpo sinuoso come un’onda.
Si chiama Alice Ernestine Prin ed è figlia di una ragazza madre che ha mollato lei e gli altri 5 figli alla propria madre in campagna; a scuola Alice ci è andata saltuariamente malvolentieri e a 12 anni già lavorava: prima in una maglieria e poi da un panettiere, ma stufa di svegliarsi all’alba, dopo due anni scappa dalla casa di campagna della nonna e approda nella capitale.
È bella, disinibita, allegra e soprattutto è stufa di mangiare pane e cipolle rosse; spudorata e provocante com’è non le è difficile trovare il modo di racimolare pasti decenti, letti accoglienti e alcove dove divertirsi.
Quando la madre, avvertita da una lettera anonima, piomba in casa di un vecchio scultore e la sorprende mentre posa nuda, la prende a schiaffi e la ripudia, lei, che l’aveva abbandonata quando aveva appena 5 anni.

Alice non si dispera: ha un carattere indomabile e un erotismo sbrigliato. È amorale e immorale: nel suo “Diario” raccontò di aver perduto la verginità in cambio di una cioccolata calda.
A 15 anni capisce che quel caschetto bruno “alla garçonne”, quegli zigomi da gitana e quell’andatura molle e ancheggiante stordiscono gli uomini e la rendono irresistibile.
E allora si trucca le labbra con un rossetto sfrontato e le palpebre con il nerofumo dei fiammiferi usati, s’imbottisce il seno con degli stracci, e cambia il nome in quel Kiki de Montparnasse, così frivolo e ribaldo, con cui come brezza stuzzicante, passa in quegli anni ruggenti anni divenendone un’icona assoluta, la modella più desiderata dagli Artisti dell’epoca.
E che Artisti! Lei, ironica, scaltra e ingenua allo stesso tempo, desiderabile e ignorante come poche, scriverà nella sua autobiografia, intitolata “Memorie di una modella”, che usciva ogni sera: «con dei tipi che si chiamano Dadaisti e altri che si fanno chiamare Surrealisti, ma io non riesco a vedere questa gran differenza tra loro!».
Quei Dadaisti e Surrealisti con cui andava a braccetto e a letto avevano i nomi di Tristan Tzara, Breton, Paul Éluard, Aragon, Max Ernst, Man Ray, Jean Cocteau, Chaïm Soutine (che nella sua misera e gelida stanza pur di riscaldarla arrivò a bruciare i suoi quadri), e ultimo, ma non ultimo, Hemingway, che lei definì «maiale e pitocco» e che invece era così pazzo di lei da firmare persino la prefazione dei suoi “Souvenirs”.

Fu sempre l’autore di “Fiesta” a dire di lei: «Kiki è un monumento: dominò l’epoca di Montparnasse [anni Venti e Trenta] più di quanto la Regina Vittoria non abbia dominato l’epoca vittoriana», e a proposito delle sue memorie: «Eccovi un libro scritto da una donna che non fu mai una signora».
Hemingway era stato fin troppo galante a definirla una “non signora”; non così il pittore Moïse Kisling che senza mezzi termini la chiamava «bagascia e puttana sifilitica».
Kiki se la rideva e del giudizio altrui se ne infischiava e continuava a vivere come più le piaceva: eccessi di ogni tipo e notti sguaiate, vino e cocaina come se non ci fosse un domani e nudità invereconde esibite in foto d’artista, risse con prostitute e soggiorni in galera, ricoveri in cliniche (per problemi cardiaci) e amori fugaci.

La relazione più importante e burrascosa della sua rocambolesca esistenza la visse con Man Ray, geniale pittore, fotografo e autore di film d’avanguardia, uno dei massimi interpreti del Dadaismo di cui divenne eroticissima Musa.
Si erano incontrati per caso. Un giorno Man Ray entrò nel caffè “La Rotonde”, uno dei più famosi degli anni Venti a Parigi e rimase colpito da questa ragazza chiassosa e ridanciana che insieme ad un’amica, anch’ella mezza ubriaca, se ne stava seduta con i piedi sul tavolo, la gonna scivolata sulle gambe scoperte e scomposte, a litigare con il barista che non voleva servirle perché troppo volgari.
Fu una folgorazione. Man Ray le chiese di fotografarla, lei lo seguì e in quel neghittoso pomeriggio autunnale, lui non scattò neanche una foto e lei se lo divorò di baci.

Quel giorno no, ma si rifarà ritraendola in centinaia di scatti in cui la spudorata carnalità di Kiki appare in tutta la sua abbagliante giovinezza.
E poi la più famosa, quella che più che una foto è un vero manifesto dell’epoca e della femminilità: “Le violon d’Ingres” in cui lei appare nuda di spalle, vestita solo di un turbante, di due orecchini e di due chiavi di violino disegnate sulla schiena.
Luminosa era la pelle, sinuose le curve, come modellate da un pollice sapiente, e quel gioco mirabile di luci ed ombre illanguidiva il suo corpo a forma di violoncello: il geniale Man Ray e la indecente Kiki avevano dato vita alla foto più venduta al mondo.

Relazione burrascosa la loro: quando lei andava al “Jockey” a ballare il can can senza biancheria intima scatenando il delirio fra gli spettatori, lui, schiumante di rabbia saliva sul palco e la trascinava via tra urli e spintoni dei clienti.
E tra loro erano schiaffi e oggetti scagliati addosso e poi notti voraci e sbrigliate.
Ma gli anni Venti volarono via e poi anche i Trenta.
La passione tra loro si dissolse e lei se ne andò a New York a rincorrere un suo amore di gioventù.
Le droghe, l’alcolismo all’ultimo stadio, gli eccessi e i disordini alimentari l’avevano fatta ingrassare smisuratamente.
Le fattezze perfette del suo corpo erano solo un ricordo, così come le follie di quegli anni ruggenti e irripetibili, ma non aveva perso la sua ironia.
«I primi cent’anni della vita sono sempre i più duri», aveva scritto. Non li raggiungerà.
Kiki, la regina di Montparnasse, morirà ad appena 52 anni in una luminosa giornata di primavera del 1953. Sulle labbra, spudoratamente rosse, un ultimo irriverente sorriso.