Rubrica coriandoli. Loïe Fuller, la “fata della luce” e quella passione proibita per Isadora Duncan che le spezzò il cuore

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Decisamente non aveva il fisico da danzatrice, Loïe Fuller, che, anzi, era massiccia e mascolina; ma quando danzava, con quelle sue movenze flessuose e ipnotiche, conquistava tutti.
La Belle Époque la incoronò una delle regine della danza e alle Folies Bergères di Parigi i suoi spettacoli registravano immancabilmente il tutto esaurito.
Ammirata senza riserve da Toulouse-Lautrec (che la ritrasse), dallo scultore Rodin, dai fratelli Lumière, da Debussy e Mallarmé, che l’appellò “l’incantatrice”, e persino da Pierre e Marie Curie, Loïe rinnovò non solo i canoni della danza, ma diede un contributo importantissimo alla illuminotecnica e all’uso del virtuosismo cromatico nelle coreografie.

Eppure questa ragazza nata poverissima nel 1862 in una sperduta fattoria del Midwest americano, orfana prestissimo di padre, ucciso da una banda di fuorilegge, non frequentò mai scuole o accademie, ma la danza ce l’aveva nelle vene, nel cuore, e ad essa, a dispetto di tutto, volle dedicarsi tutta la vita.
Un fluttuare senza sosta di veli, vibrazioni di luce, energia vitalistica: era così la sua celebre “danza serpentina” con cui rivoluzionò le arti sceniche della fine dell’Ottocento.
Il vorticare di braccia che tenevano bastoni che reggevano a loro volta veli amplissimi ed impalpabili, e poi un tripudio di colori e di luci: questo guardavano, meravigliati, gli spettatori che accorrevano entusiasti ai suoi spettacoli.

Le sue performances erano stupefacenti per energia innovativa e perfezione di movimenti, ma anche per i suoi abiti confezionati con 350 metri di seta, per i 25 tecnici che lei pretendeva per ogni suo spettacolo e che creavano, dietro sue dettagliatissime e pignole direttive, effetti cromatici e luminescenti mai visti prima, anche grazie a quei sali fosforescenti (da lei ideati), applicati direttamente sul costume di scena.
Ne derivava un vortice di suoni, luci e movimenti che sbalordivano ed ipnotizzavano pubblico e critica e un ardimento ed un’energia che elettrizzavano gli spettatori.
Fu lei, Loïe Fuller a dare indiscutibilmente un nuovo impulso alla danza moderna che troverà poi un’icona irresistibile in Isadora Duncan.

Già, Isadora. Appena la vide, così snella, sensuale e spregiudicata, Loïe, dichiaratamente omosessuale, se ne innamorò perdutamente e la volle tra le giovani danzatrici che le facevano da cornice nelle sue coreografie.
La Duncan, però, oltre che di enorme talento, era dotata anche di ambizione sconfinata e di scaltro opportunismo e quindi ne divenne l’amante, ne sfruttò il successo, le rubò la scena (e il pubblico) e la confinò nell’oblio.
Ma fu da quella ragazza nata in una sperduta prateria americana ad imparare a danzare scalza, a fare della danza un linguaggio ardito e innovativo e del proprio corpo un veicolo di dinamismo e di intensità.

Loïe Fuller morì nel 1928, a 66 anni. Era malata da tempo di cancro che l’aveva colpita probabilmente in seguito alle forti dosi di radiazioni presenti nelle “ali di farfalla” fluorescenti (al radium) che lei aveva così spesso utilizzato nella sua carriera.
La sua tomba giace nel cimitero monumentale di Parigi, il Père Lachaise, a pochi metri dalla sua irriconoscente allieva e amante, ma quella di Isadora è costantemente visitata e coperta di fiori; la sua, invece, malinconicamente trascurata e invasa da erbacce.