Rubrica coriandoli: Lord Byron e il romantico furto

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È un plumbeo pomeriggio d’ottobre del 1816: piove a squarciagola, le strade sono quasi deserte e nella semioscurità un uomo avvolto da un tabarro nero si avvia, claudicante, verso la Biblioteca Ambrosiana di Milano.
Un che di misterioso e minaccioso si riverbera dalla sua figura, ed il suo sguardo è quello di un angelo maledetto che ha smarrito il Paradiso; che sia arrivato fin lì trasportato dalle tempestose folate dello Sturm und Drang?

L’uomo entra e percorre un lungo corridoio; giunto davanti ad una teca di cristallo, s’arresta a contemplarla: dentro c’è la famosa ciocca di capelli che Lucrezia Borgia aveva tagliato per donarla a Pietro Bembo.
Il lucore tremulo ed esitante dei candelieri proietta l’ ombra dell’uomo contro il muro, ed essa pare giganteggiare fino al soffitto.
Ad un tratto egli apre con circospezione lo scrigno, prende la ciocca fra le mani, ne sottrae un capello e la ripone, con devozione si direbbe, fra i velluti.
Poi l’uomo esce. Non piove più, ora: è sopraggiunta la nebbia, sfilacciato tulle che si aggrappa ai rami e alle cose, rendendo Milano una città spettrale e sinistra. E lui si allontana, con la sua andatura grottesca, e scompare.

Chi era quell’inquietante individuo che era andato all’Ambrosiana per rubare un biondo capello, chi era quel ladro di emozioni? Uno che conosceva le tempeste dell’animo, certamente, e che di quell’amore antico e clandestino aveva subito la malia.
Era forse un poeta? Sì, lo era: un poeta geniale, dagli occhi febbrili e dal rictus sardonico, dalla claudicante deformità e dalle temibili turbe psichiche, un poeta dall’anima fosca e truce, ma così romanticamente ammagato dalla figura di Lucrezia Borgia, da trafugarne un capello, per farne una preziosa reliquia.
Quel poeta che ora si stava perdendo nella bruma era il più fulgido esempio di empietà e fascino, di crudeltà e genialità che l’Ottocento avesse prodotto: quell’uomo era Lord Byron.

George Gordon Byron, colui che insieme a Shelley e Keats costituiva la triade suprema della Poesia romantica inglese e che Goethe considerava il più grande genio inglese dopo Shakespeare, era nato a Londra nel 1788 e fu un Artista straordinario e dissoluto (pare fosse legato alla sua sorellastra Augusta da un amore incestuoso); visse una Vita burrascosa e avventurosa, consegnando ai posteri l’immagine di un personaggio satanico e temibile, un angelo bello e ribelle che fece innamorare di sé decine di donne (e di uomini).
Morirà a Missolungi, in Grecia a 36 anni, lasciando capolavori indiscutibili: “Manfred”, “Don Juan”, “Il pellegrinaggio del giovane Aroldo”, “Mazeppa” (che ispirò a Liszt l’omonimo Poema Sinfonico), “Sardanapalo”.

Ad ucciderlo fu sicuramente la malaria, ma anche le strampalate cure mediche, più nocive della stessa malattia, e al suo funerale accadde una cosa incredibile…ma questa è un’altra storia e ve la racconterò un’altra volta…

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