Rubrica coriandoli. L’uomo che rubò la Gioconda

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La mattina del 22 agosto 1911 era una bellissima giornata di sole a Parigi e Monsieur Homolle, Direttore del Louvre, percorreva la strada che lo stava conducendo al più celebre Museo del mondo; guardò in su e di fronte a quel cielo terso e azzurrissimo sorrise soddisfatto.
Non poteva immaginare che quella radiosa mattinata si sarebbe trasformata per lui in una delle giornate più tempestose della sua Vita.

Ad accoglierlo, all’entrata del Louvre, un agitatissimo Monsieur Poupardin, capo della sicurezza, che, la fronte imperlata di sudore, si torceva le mani.
«Direttore», esordì, «una tragedia: hanno rubato La Gioconda!»
«Ma cosa dite, Monsieur Poupardin!», esclamò Homolle sgranando gli occhi.
«Venite a vedere voi stesso», rispose il capo della sicurezza, detergendosi la fronte.

Guardò, il Direttore, ma sul muro di fronte alle “Nozze di Cana” del Veronese, non campeggiava più il più celebre dipinto di tutti i tempi. Eh già, La Gioconda era sparita!
Erano già state bloccate le uscite, perquisiti i mattinieri e stupiti visitatori, perlustrato l’intero Museo, ma del celebre dipinto di Leonardo da Vinci, nessuna traccia. Vennero rinvenuti la cornice e il vetro sulla scaletta della sala denominata dei “Sept Mètres”.
Mentre l’imbarazzatissimo Direttore riferiva del furto al sottosegretario di Stato alle Belle Arti, al Capo della Polizia e al Prefetto di Parigi, lo spazio lasciato vuoto da La Gioconda venne riempito tempestivamente dal “Ritratto di Baldassarre Castiglione” di Raffaello.

La notizia si propagò come un dardo a Parigi e in Europa; la stampa affondò i suoi lunghi denti e venne annunciata anche una ghiotta ricompensa di 25.000 franchi a chi avesse dato informazioni utili per il ritrovamento.
I giorni passavano, l’opinione pubblica incalzava e la Polizia, annaspando nel buio, prese anche delle cantonate madornali, arrivando ad arrestare persino Guillaume Apollinaire e Pablo Picasso, sulla base non certo di prove o indizi, ma solo sulle loro spavalde dichiarazioni futuriste circa la necessità di distruggere le opere antiche dei Musei per dare spazio a nuovi linguaggi e nuovi capolavori.

Ma che fine aveva fatto La Gioconda e, soprattutto, chi l’aveva rubata?
L’autore del furto era un imbianchino italiano, Vincenzo Peruggia, originario di un paesino vicino Luino, in provincia di Varese, ai confini della Svizzera; emigrato in Francia, si era ammalato di saturnismo, un’intossicazione da piombo contenuto nelle vernici, e proprio in qualità di operaio della ditta Gobier, che si occupava della manutenzione e pulizia dei dipinti al Louvre, era venuto a contatto con la Gioconda di Leonardo e ne aveva subito la malìa.
Com’è come non è, s’era messo in testa di rubare il quadro e di riportarlo in Italia, spinto da un forte impulso patriottico e da un innegabile coraggio.

La mattina presto del 21 agosto di quel 1911, pertanto, il Peruggia era entrato di soppiatto nel Museo dalla porta laterale, quella riservata agli operai, aveva raggiunto indisturbato il Salon Carré, staccato dalla parete il quadro, gettati vetro e cornice, arrotolato la tela sotto la giacca; dopodiché era uscito dal portone principale e, con le tempie che gli pulsavano, era salito sul primo autobus che gli era passato davanti. Dopo pochi minuti si era accorto che il bus andava nella direzione opposta alla sua casa; e cosi era sceso, aveva preso un taxi e si era fatto portare davanti al suo piccolo appartamento in rue de Hôpital Saint-Louis.
E qui la nascose amorevolmente mentre la polizia parigina girava a vuoto e sui giornali di mezzo mondo l’eco della notizia del furto si amplificava più che mai.

A questo punto entra in ballo anche Gabriele d’Annunzio, a quell’epoca in Francia, per sfuggire i creditori.
Pare che il Peruggia si fosse recato da lui una ventina di giorni dopo il furto, per affidargli la Gioconda, secondo il racconto (ma quanto veritiero?) del segretario del Poeta Tom Antongini.
Certo è che d’Annunzio scrisse all’allora Direttore del “Corriere della Sera” Luigi Albertini sostenendo che era venuto in contatto con il ladro-gentiluomo e che dietro lauto compenso gli avrebbe spedito un articolo bomba (che l’allarmato Albertini non accettò); vero è che lo scrittore pescarese manifestò l’intenzione di scrivere un romanzo dal titolo emblematico “L’uomo che rubò la Gioconda”, ma la somma richiesta era tale che del progetto non se ne fece nulla.
Vero è, infine, che nel “Libro ascetico” il Vate confonderà ancor più le idee con questa frase enigmatica: “…la Gioconda fu da me restituita per sazietà e per fastidio, come tutti sanno e come tanti temono di approfondire” Amen.

Intanto, dal giorno del clamoroso furto, trascorsero 2 anni di vane ricerche, fino a che il temerario (e ingenuo) Peruggia decise di offrire il quadro ad un antiquario di Firenze, Alfredo Geri, in cambio di 500.000 franchi e gli diede appuntamento nell’alberghetto dove era sceso.
L’allibito antiquario, allertata la polizia, l’11 dicembre 1913 si recò nella stanza n 20 al terzo piano dell’Hotel Tripoli (che dopo questa vicenda cambierà scaltramente il nome in Hotel Gioconda) accompagnato dall’allora Direttore degli Uffizi Giovanni Poggi.
E qui, con la bocca spalancata, entrambi verificarono l’autenticità del dipinto.

Lo sprovveduto Vincenzo Peruggia venne arrestato, processato, dichiarato “minorato mentale” e condannato ad una pena tutto sommato mite: 1 anno e 15 giorni e questo anche per accontentare, in un certo senso, l’opinione pubblica italiana che era tutta a favore per l’imbianchino “patriota”.
La Gioconda, prima di essere restituita al Louvre, fu esposta alla Galleria degli Uffizi (e furono in cinquantamila a sfilare davanti ad essa), a Roma (e si scomodò per andarla a vedere persino Sua Maestà Vittorio Emanuele III) e a Milano dove, alla Pinacoteca di Brera, ci fu una ressa mai vista.

E del “romantico” ladro che ne fu? Vincenzo Peruggia dopo aver scontato la pena prese parte alla Prima Guerra Mondiale, partecipando anche alla battaglia di Caporetto (e finendo prigioniero degli Austriaci) e poi se ne tornò in Francia, dove andò a vivere a Saint Maur des Fossées; qui morirà per infarto nel 1925, a soli 44 anni, non prima di aver messo al mondo un’unica figlia di nome Celestina.
Ma da tutti chiamata Giocondina ????

Nella foto la famosa provocazione dell’artista dadaista Marcel Duchamp che nel 1919 “osò” mettere i baffi alla Gioconda

La Gioconda (Duchamp)