Rubrica coriandoli: Marina Cvetaeva “Trovate parole che mi incantino. Credo solo agli incantesimi”…

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L’amore? È lama? È fuoco?
Così si chiedeva, in un celebre incipit, Marina Ivanovna Cvetaeva, una delle più grandi voci della poesia mondiale, nata a Mosca l’8 ottobre 1892, esattamente 124 anni fa.

Sì certo, l’Amore è lama e fuoco, ma è anche un rogo, un gioco di specchi e di scacchi, estasi e tormento. E tutto questo vibra nelle liriche di questa poetessa straordinaria e donna appassionata, che conobbe l’Amore in tutti i suoi prismatici aspetti e lo visse senza risparmio e senza distinzione di sesso, con pagano furore e fatalissimo struggimento.

Era figlia di Marija Mejn,una straordinaria pianista (e la Musica sarà sempre nutrimento indispensabile della sua anima) e di Ivan Vladimirovic Cvetaev un noto filologo, fondatore del Museo delle Belle Arti (in seguito Museo Puskin), e fin dall’infanzia si abbeverò alle sorgenti della cultura, intridendo la sua Vita di Poesia e Arte.
Puŝkin, Goethe, Hölderlin, Dumas, Rostand furono i suoi Maestri: la Poesia fu la sua Vita, tanto da trasferirsi da sola, nel 1909 a Parigi, per seguire lezioni di Letteratura francese alla Sorbonne.

Sposò Sergej Efron che amerà sempre ma al quale non sarà mai fedele, perché per lei la passione era nutrimento indispensabile, soprattutto se vissuta in maniera spasmodica e totalizzante. “Io devo essere amata in modo del tutto straordinario per poter amare straordinariamente”, aveva scritto giovanissima a Aleksandr Vasil’evic Bachrach, un ragazzo di vent’anni di cui si era invaghita. E così sarà sempre per lei, affamata d’Amore e di Poesia.
“Nella vita e nell’arte aspirò sempre, impetuosamente, avidamente, quasi rapacemente, alla finezza ed alla perfezione”, scrisse di lei Boris Pasternak, l’autore de “Il dottor Živago”, che l’ammirò incondizionatamente e con il quale visse un rapporto febbricoso e altalenante.
Si spedirono lettere per quattordici anni, si fusero l’un l’altra, furono gelosi l’uno dell’altra, si fecero del male. In fondo, pur lasciandosi, non si lasciarono mai.

La poesia della Cvetaeva è tra le più originali del Novecento: scevra da sentimentalismi e morbidezze, predilige il verso secco e scabro, che rifiuta i nessi logici normali per approdare ad una scrittura nella quale l’ordito fonetico e musicale è preminente.
Il suo stile teso ed arrochito, le sue subitanee illuminazioni, i suoi strappi sonori sono riverberi di un’esistenza altrettanto drammatica e corrusca.
Ricercò spasmodicamente emozioni ed incantamenti, rifuggì con ostinata determinazione tutto ciò che fosse banale, scontato, normale. “Trovate parole che mi incantino: credo soltanto agli incantesimi”, scrisse ad una sua amante fugace, ed in questa frase c’è tutta la sua filosofia di Vita.

Il suo temperamento inquieto ed irrequieto, un rapporto difficile con il figlio, le traversie politiche della sua Russia, che lascerà nel 1922, il continuo peregrinare in varie città che, se da una parte l’arricchì interiormente, dall’altra le provocò un insopprimibile senso di sradicamento, la morte della figlia di pochi anni e del marito amatissimo (nonostante mille altri amori), una miseria economica umiliante (per un periodo fu si ritrovò ad avere un unico, logoro vestito marrone), sfinirono la sua vitalità e la sua gioia di vivere.
Tornò nella sua Patria nel 1939: l’atteggiamento ostile delle autorità (durante la Rivoluzione del 1917 aveva espresso consenso ai Menscevichi, la fazione avversa ai Bolscevichi) l’amareggiò ulteriormente, la deportazione della propria figlia in un gulag la rese pazza di dolore.

“Io non voglio morire. Io voglio non esistere”, scrisse.
In una delle sue ultime lettere si legge: “Già da un anno cerco con gli occhi un gancio…da un anno prendo le misure della morte”. E lo trovò quel maledetto gancio.

Il 31 agosto 1941, una domenica mattina, Marina Cvetaeva salì su una sedia, rigirò una corda attorno ad una trave e s’impiccò.
Lasciò un biglietto, poi scomparso negli archivi della milizia.
Ai suoi funerali non partecipò nessuno. Della sua tomba non v’è traccia.