Rubrica coriandoli. Nerone e il diabolico 666

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Suo padre era Gneo Domizio Enobarbo, uomo rude, vizioso e crudele; sua madre l’ ambiziosa, scaltra e implacabile Agrippina.
Lucio Domizio Enobarbo (universalmente noto come Nerone) nacque ad Anzio il 15 Dicembre del 37 d.C. in posizione podalica, cosa allora ritenuta di cattivo auspicio e quando alcuni indovini Caldei predissero alla madre che il neonato sarebbe arrivato sì al potere, ma che l’avrebbe poi uccisa, lei, imperterrita sentenziò: «M’uccida, purché diventi Imperatore».
Sarà accontentata in entrambe le cose.

Nerone salirà sul soglio imperiale a 17 anni, grazie all’avvelenamento dell’Imperatore Claudio organizzato da sua madre Agrippina diventata, nel frattempo, sua seconda moglie dopo che questi era rimasto vedovo di Messalina.
Figlio di cotanta madre, Nerone si sbarazzò, sempre mediante veleno, del legittimo erede al trono Britannico, figlio di Claudio e di Messalina.
E, cosa perversa assai, la terribile madre gli impose il matrimonio proprio con la dolcissima Ottavia, l’altra figlia dei due e sorella del povero Britannico: una mossa volta unicamente a distogliere Nerone dalla passione per la bellissima liberta Atte.
Matrimonio disastroso e per la virtuosa Ottavia nefasto, visto che sarà uccisa in modo crudele.

All’inizio del suo principato Nerone si mostrò generoso, clemente, amabile e in politica evidenziò un sagace realismo; lussuria, cupidigia e crudeltà furono abilmente tenute a bada, forse grazie anche agli insegnamenti del filosofo Lucio Anneo Seneca quale Magister vitae; fino a che gli fu accanto, l’Imperatore arginò la sua propensione alle turpitudini che dilagarono quando Seneca fu fatto suicidare con la cicuta.

Promosse spedizioni che giunsero persino al Lago Alberto, in Africa tra lo Zaire e l’Uganda;fece allestire spettacoli magnificenti ai quali non mancava mai, assiso su di un trono dall’alto del suo pulvinar (il palco imperiale), con all’occhio un enorme smeraldo sciita per attenuare la forte miopia di cui era afflitto.
Convinto di possedere una voce celeste, per preservarla si sottoponeva a pratiche assurde: per mantenere limpide le corde vocali si stendeva supino e si faceva apporre sul petto lastre di piombo per rinforzare la cassa toracica.

Tra lui e sua madre Agrippina s’instaurò un rapporto malato di vittima-carnefice e per molto tempo fu succube della sua imperiosa personalità, ma poco a poco l’asfissiante intromissione di Agrippina lo indussero ad un odio sempre più violento e implacabile che lo condussero al matricidio.
Elesse quale Prefetto del Pretorio Gaio Ofonio Tigellino, malvagio figuro, «dalla giovinezza turpe e dalla vecchiaia depravata», come lo stigmatizza Tacito, che fu non solo complice, ma istigatore di tutte le scelleratezze ed i misfatti di cui si macchierà Nerone da allora in poi.

La sera del 18 luglio del 64 d.C Roma fu divorata da un incendio di proporzioni immane, che, partito dal Circo Massimo, si estese ben presto a tutti i quartieri; dopo sette giorni e sette notti d’inferno, si conteranno 4000 case bruciate e templi maestosi, monumenti, manoscritti pregiati distrutti.
Forse non è vero che fu lui ad ordinare di appiccare quell’incendio, e forse è pura leggenda che lo contemplasse dall’alto della Torre di Mecenate, cantando un poema da lui composto, “La presa di Troia”, e con indosso un costume di scena. La Storia non ha ancora risolto l’enigma di chi furono i colpevoli, i mandanti, gli esecutori.

Nerone accusò i cristiani di essere i responsabili di quel rogo esiziale e la sua persecuzione contro di loro sarà implacabile: molti saranno crocifissi lungo i viali delle sue dimore, non senza prima aver fatto loro indossare la tristemente nota tunica molesta, ovvero una lunga veste impregnata di grasso cui era appiccato il fuoco, sì che i poveretti si trasformavano in vere torce umane utilizzate per illuminare le notti delle sue feste.

Migliaia saranno le vittime di quell’eccidio e, tra loro, due vittime illustri: gli apostoli Pietro e Paolo. Pietro chiese ed ottenne di essere crocifisso a testa in giù, perché gli sembrò blasfemo emulare la morte di Gesù, mentre a Paolo, essendo cittadino Romano, fu risparmiata la crocifissione (considerata supplizio infamante dai Romani) e fu decapitato.
Poiché il rogo aveva semidistrutto anche il palazzo imperiale, Nerone si fece costruire la più magnificente dimora di Roma, la Domus Aurea che si estendeva dal Palatino all’Esquilino, i cui soffitti, tanto per dire, erano costituiti da tavolette d’avorio semovibili, da cui erano fatti cadere, mollemente, migliaia di petali di rose e diffondere aromi profumati.

Dopo aver mandato a morte la prima moglie Ottavia e causato quella di Poppea con un calcio all’addome, Nerone s’invaghì prima del mimo Paride, poi di un fanciullo, Sporo, che fece evirare e che sposò con cerimonia nuziale con tanto di corteo e velo arancione come una sposa.
Abbigliato e ingioiellato come una vera Imperatrice, Sporo lo seguiva su una lettiga d’oro in tutte le occasioni ufficiali.

Alla fine i suoi crudeli e folli atteggiamenti a mano a mano aizzarono l’odio contro di lui: era l’inizio della fine.
Il Senato lo dichiarò nemico pubblico e tutti lo abbandonarono: guardie, tribuni, liberti, persino il famigerato capo dei Pretoriani Tigellino.
Solo Atte, la fedele concubina di un tempo e l’amante e sposa Sporo continuarono a stargli accanto.

Con loro e con due liberti scappò di notte a piedi scalzi, rifugiandosi presso una villa tra la via Flaminia e la via Salaria. Sentendo avvicinarsi lo scalpitio dei cavalli, disse con enfasi: «Di pie’ veloci destrieri mi giunge all’orecchio il galoppo». Era un verso dell’Iliade. Neppure in quell’occasione aveva rinunciato a fare l’attore.
Decise, allora, di darsi la morte, e, puntandosi al collo un pugnale, esclamò: «Qualis artifex pereo!» («quale artista muore con me!»).
A quel punto il suo liberto Epafrodito, con un colpo secco, spinse la mano di Nerone. Il pugnale affondò nella gola. Morì, con gli occhi sbarrati dal terrore.
Il popolo, alla notizia, si abbandonò ad esultanti manifestazioni di gioia.

La Storia lo stigmatizzò come uno degli Imperatori più crudeli e secondo la numerologia ebraica il 666, il sinistro “numero del demonio”, scritto in lettere si riferirebbe proprio a lui perché sarebbe il risultato della somma dei numeri che nella cabala corrispondono proprio alle consonanti delle parole ebraiche “Nerone Cesare”.

Nella foto: Nerone interpretato da Peter Ustinov nel film “Quo vadis”, film kolossal del 1951, diretto da Mervyn LeRoy.

Nerone interpretato da Mervin LeRoy