Rubrica Coriandoli. “Siamo brutti ma la vita è bella”: capolavori, dissolutezze e passioni di Henry Toulouse-Lautrec

Categories: News

A chi lo derideva per la bassa statura, rispondeva: “Ho, in compenso, l’altezza del mio casato”, che in effetti era notevole e risalente addirittura all’epoca di Carlo Magno.
Henri-Marie- Raymond de Tolouse-Lautrec-Monfa nacque il 24 Novembre 1864 ad Albi, una cittadina della Francia meridionale da Alphonse e Adèle, nobili entrambi e soprattutto cugini primi.

Si erano sposati tra loro per preservare la purezza araldica e il solido patrimonio, ma la loro consanguineità ebbe funeste conseguenze sulla prole che annoverò purtroppo figli con gravi disabilità fisiche o periti in tenera età.
Li legava solo il vincolo di sangue, ché non potevano essere più diversi: Alphonse, bizzarro, esibizionista e sciupafemmine, Adèle ipocondriaca, riservata e bigotta.

Henry da bambino era bellissimo: “Bebè le joli” o “Petit bijou” era vezzosamente appellato, ma a 13 anni iniziarono i problemi.
Un giorno di maggio del 1878 cadde fratturandosi il femore sinistro, l’anno successivo quello destro.

Nel frattempo il piccolo Henry aveva cominciato a soffrire di dolori atroci alle gambe, che non crescevano rispetto al resto del corpo: erano fragili e corte (come le braccia d’altronde) e la sua andatura si fece caracollante e maldestra.
Nel contempo le labbra divennero turgide fuori misura e la lingua si ispessì, causandogli difetti di pronuncia.

Picnodisostosi, ovvero deformazione ossea congenita, o più esattamente osteogenesi imperfetta fu la diagnosi: malattia gravissima delle ossa che gli avrebbe impedito la crescita armonica di gambe e braccia e gli avrebbe causato per tutta la vita dolori e sofferenze inenarrabili.

Ma non si arrese, Henry Tolouse-Lautrec: divenne, a dispetto del suo corpo deforme, un ottimo nuotatore ed un valente vogatore, ma soprattutto uno dei rappresentanti più sfolgoranti della pittura della Belle Époque.

Si trasferì a Parigi, a Montmartre, quartiere che con i suoi colori, il suo schiamazzo, i café-chantants e i suoi bordelli era considerato attraente e malfamato, tanto che i suoi aristocratici e sdegnati genitori gli imposero di usare uno pseudonimo per non infangare il buon nome.
I primi dipinti infatti furono firmati “Tréclau”, anagramma di Lautrec, ma dopo un po’ Henry diede un calcio alle convenzioni e al perbenismo e si firmò, orgogliosamente, con il suo doppio cognome.

Diede un calcio anche ai freni inibitori e si abbandonò ad un’esistenza dissoluta, eccessiva e trasgressiva, in compagnia di prostitute, ballerine di infimi locali notturni, acrobate circensi (una delle quali, Suzanne Valadon tentò il suicidio dopo che lui l’aveva abbandonata) e personaggi loschi.

Nei suoi dipinti e nei manifesti pubblicitari divennero loro le protagoniste, con i loro occhi bistrati e i sorrisi malinconici, con gli abiti chiassosi e le pose sguaiate, il cuore grande e la vita breve.

Come la Gouloue, ballerina di can can, rossa di capelli e generosa di seno, detta “l’ingorda” perché di insaziabili appetiti e di poderose bevute (usava scolarsi gli avanzi dei bicchieri dei clienti dove si esibiva), sfacciata, candida e sola come lui, che la ritrarrà rendendola immortale prima che l’alcol e la miseria la riducessero l’ombra di sé.

O come un’altra celebre rossa, Jane Avril, la prima ballerina del Moulin Rouge, sua Musa e sua amante che amò disperatamente tra un ricovero e l’altro nella Salpêtrière, la clinica psichiatrica dove lei puntualmente veniva ricoverata perché affetta da disturbo ossessivo-compulsivo.

Perché amava gli ultimi, Tolouse-Lautrec, pittore aristocratico dall’animo generoso, ma dal carattere rissoso che lo portò a sfidare a duello un critico imbecille che aveva deriso i girasoli di van Gogh, cui lo legava amicizia e irrequietudine.

Già l’irrequietudine, sua compagna di vita.

Per placarla e per placare i terribili dolori agli arti di cui soffriva, si stordiva di alcol e assenzio, una droga che lo rendeva collerico e irascibile per poi ottunderlo con periodi di ebetudine.
E allora erano allucinazioni e deliri e quel ronzio ossessivo di mosche inesistenti, visioni terrifiche di animali mostruosi tipiche della sindrome di Korsakoff da cui fu affetto nell’ultimo periodo della sua vita.
La sifilide fece il resto.

Logorato nel corpo e nella mente, dopo un ultimo violento attacco di delirium tremens e un ricovero in una clinica per malattie mentali, si rifugiò nel castello di famiglia di Malromé.

Qui si spense, tra le braccia della madre, il 9 Settembre 1901, a 37 anni non ancora compiuti.